Un concetto alla base della tutela degli animali impiegati a scopi scientifici è il loro riconoscimento come esseri senzienti, un concetto che richiama alla coscienza. Ma cosa sappiamo al riguardo? Abbiamo prove scientifiche tali da consentirci di fare distinzioni tra i vertebrati, che in Europa sono tutelati da una legislazione molto protettiva, e gli invertebrati, che non rientrano nella legislazione ma sono ampiamente usati nei laboratori?
Su questo sito, abbiamo dedicato diversi approfondimenti agli animali impiegati a scopo scientifico in Europa, in particolare analizzando i dati dell’ultimo report per capire di quali specie si tratta, degli scopi per i quali vengono utilizzati e, ancora, andando a guardare più da vicino i dati italiani e quelli riguardanti le linee geneticamente modificate. In tutti questo casi, le informazioni sono state raccolte in accordo alla Direttiva 2010/63 EU, che ha appunto lo scopo di tutelare gli animali impiegati nella ricerca scientifica.
Tale direttiva comprende i vertebrati e alcuni invertebrati, nello specifico i cefalopodi, nonché le forme fetali dei mammiferi. Ma tra gli animali più largamente impiegati nei laboratori di tutto il mondo vi sono gli invertebrati: per esempio, il moscerino Drosophila melanogaster e il nematode Caenorhabditis elegans sono organismi modello, forse i più famosi e impiegati in assoluto, storicamente usati perché molte delle informazioni che si possano apprendere dal loro studio possono poi essere traslate su altri organismi. Non essendo, cefalopodi a parte, inclusi nell’ambito di applicazione della Direttiva, degli invertebrati non abbiamo le cifre precise sul numero d’individui impiegati per la ricerca, e neppure sappiamo in quali campi siano maggiormente utilizzati (anche se possiamo ipotizzare che la ricerca di base e quella translazionale la facciano da padrone).
Perché questa differenza? Leggendo la Direttiva, si comprende come la scelta di tutelare gli animali vertebrati impiegati a fini scientifici dipenda soprattutto dal riconoscimento della loro capacità di provare dolore e sofferenza. Per esempio, nell’articolo 8, che aggiunge i cefalopodi alle specie incluse, si trova che “… è opportuno includere anche i cefalopodi all’ambito di applicazione della presente direttiva poiché è scientificamente dimostrato che possono provare dolore, angoscia, sofferenza e danno prolungato”. In effetti, la Direttiva del 2010 è l’ultimo passo di un lungo processo legislativo e che vede nel Trattato di Lisbona del 2007 lo step immediatamente precedente: è in questo documento, infatti, che gli animali sono riconosciuti come esseri senzienti – da qui la necessità di proteggerne il benessere. Rimane però ancora aperta la domanda: come mai, per quanto riguarda l’impiego a fine scientifico, solo alcuni di essi sono inclusi? In altre parole, se l’essere senzienti e la capacità di provare sofferenza fanno da principale motivazione del riconoscimento della necessità di tutelarli, gli invertebrati (che, oltre a essere largamente utilizzati nei laboratori, rappresentano circa il 90% delle specie del pianeta) rimangono esclusi?
La questione, che chiama in causa la coscienza degli animali, può essere affrontata da diversi punti di vista. Il tema è complesso e non ambiamo a dare una risposta completa e univoca alla domanda. Qui vogliamo solo iniziare ad affrontare la prospettiva più strettamente scientifica: cosa sappiamo della coscienza degli animali? Abbiamo prove scientifiche che ci permettano di capire se un animale è senziente o meno? Ne parliamo con Giorgio Vallortigara, neuroscienziato dell’Università di Trento.
Qualche considerazione iniziale
«Una prima considerazione che possiamo fare è che, anche in ambito scientifico, tendiamo a portarci dietro una concezione un po’ antiquata dell’evoluzione biologica, vista come una scala che va dagli organismi più “semplici” a quelli più “complessi”. Quest’idea, che si trasferisce anche ai processi mentali, insieme a un certo antropocentrismo che ci porta a emozioni più forti se pensiamo per esempio a un macaco rispetto a un verme o un moscerino, può in parte spiegare perché c’è meno attenzione verso gli invertebrati che per altre specie», spiega Vallortigara. «Eppure sappiamo che gli animali che vivono oggi sul pianeta sono tutti, in un certo senso, egualmente evoluti, perché tutti hanno avuto lo stesso tempo, dalla nascita della vita sulla Terra, per evolvere. È per questa ragione che, anche a livello grafico, ora si preferisce rappresentare le forme viventi attraverso l’albero evolutivo darwiniano, in cui tutte le specie che vivono oggi sono poste all’apice».
Andando a riflettere meglio sul concetto della coscienza e della consapevolezza di sé, cioè la capacità di avere esperienze e provare sensazioni in prima persona (quella che in filosofia è detta coscienza fenomenica), bisogna intanto fare una prima distinzione: «Dobbiamo intanto fare chiarezza sui processi mentali cui ci si riferisce. Sono quelli cognitivi o quelli relativi alla vera e propria coscienza? È importante evidenziare che non sono la stessa cosa: dimostrare che una certa specie sia in grado di fare qualcosa di cognitivamente complesso (come risolvere un problema o programmare un’azione) non ci dice nulla del fatto che abbia una coscienza e consapevolezza di sé – cioè l’aspetto che interessa dal punto di vista etico». D’altronde, continua Vallortigara, non abbiamo una risposta a cosa sentano gli animali, così come non ce l’abbiamo per i nostri simili, nel senso che non abbiamo la possibilità di penetrare l’esperienza in prima persona degli altri. A differenza di quanto avvenga con altre specie, però, quando ci confrontiamo con altri esseri umani è più facile pensare che le nostre inferenze siano corrette, sia perché siamo simili fisicamente sia perché possiamo basarci su mediatori che ci sono noti, come il linguaggio. Senz’altro più difficile pensare di comprendere quanto, cosa e come senta un altro animale: riprendendo una citazione del filosofo Ludwing Wittgenstein, Frans de Waal, etologo e autore si Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali?, diceva che “Se anche un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo”. Viviamo in ambienti diversi, ci vengono a mancare i mediatori condivisi, in generale è differente il modo di percepire l’ambiente (basta pensare, per esempio, al fatto che non sentiamo gli ultrasuoni come i cetacei o i pipistrelli, né percepiamo la luce ultravioletta come gli uccelli).
Dal numero di neuroni alle strutture cerebrali
«Insomma, per indagare la coscienza servono altri criteri rispetto alle evidenze comportamentali e fisiologiche, come può essere un incremento di adrenalina in presenza di dolore», spiega lo scienziato. «Vi sono alcuni elementi che sono stati tenuti in considerazione nella riflessione sulla coscienza e che possono anche essere considerati parte della distinzione che si fa tra vertebrati e invertebrati. Uno è il numero di neuroni come indicatore diretto di un essere senziente; ma io sono molto scettico su questa associazione. Gli invertebrati hanno un ambito di variazione enorme, perché si va dai 302 neuroni di C. elegans ad animali come il polpo o la seppia, dove i neuroni sono una cinquantina di milioni. Inoltre, c’è attualmente molta discussione su quanto il numero di neuroni possa davvero essere indicativo sul possedere una coscienza». Per quanto riguarda le capacità cognitive (che però, ricordiamo, non ci dicono nulla sulla consapevolezza), sappiamo che molte abilità come la categorizzazione o certe capacità numeriche elementari possono essere condotte con un numero di neuroni limitato. Alcuni interessanti esperimenti sono riportati proprio da Vallortogara nel suo ultimo libro, Pensieri della mosca con la testa storta: è il caso, per fare un esempio tra molti, delle api che si dimostrano in grado di discriminare tra i quadri di Monet e di Picasso.
«Inoltre, questi esperimenti sono stati condotti con successo anche su piccole reti neurali artificiali. E, in generale, gli avanzamenti delle neuroscienze e della psicologia cognitiva ci mostrano che solo una piccola porzione della nostra vita mentale è cosciente e consapevole. Insomma, la quantità di neuroni non sembra essere correlata tanto alla coscienza quanto, semmai, alla grandezza dell’animale, ai muscoli, alla superficie corporea…», aggiunge Vallortigara.
Ecco perché un altro elemento su cui la scienza ha posto l’attenzione nell’indagare la coscienza è la presenza di specifiche strutture – un’idea nella quale l’accento si sposta quindi dalla quantità al tipo di organizzazione. «Un punto di vista che ha sicuramente dominato la costruzione della legislazione sulla sperimentazione animale è che la corteccia e le strutture simili siano particolarmente importanti. Infatti, nei protocolli per l’autorizzazione all’impiego di un determinato animale si deve dichiarare che si usa una certa specie perché lo studio non può essere condotto su una specie “neurologicamente inferiore”», spiega il ricercatore. «La corteccia cerebrale è un elemento che troviamo nei mammiferi e che per molto tempo è stato considerato unico. Tuttavia, ora è diventato chiaro che altre strutture, come quelle dorsali dell’encefalo degli uccelli, hanno caratteristiche simili pur avendo un’architettura differente. Questo apre alla possibilità molto plausibile che funzioni anche molto complicate possano essere realizzate su substrati diversi da quelli della corteccia cerebrale dei mammiferi. Un gruppo importante di scienziati suggerisce infatti che non siano le strutture corticali ma quelle mesencefaliche o troncoencefaliche a essere importanti per la coscienza. Questo potrebbe allora fare una grande differenza per gli invertebrati, soprattutto per animali che hanno strutture di reti neuronali diffuse (è il caso degli cnidari), perché diventa plausibile l’idea che possano avere coscienza fenomenica e senzienza anche senza possedere strutture che si avvicinano, neanche lontanamente, alla corteccia cerebrale».
Le ricerche nel campo della coscienza sono moltissime e coinvolgono diverse specie, in alcuni casi compresa quella umana; è un tema, commenta Vallortigara, che per molti aspetti rappresenta la prossima frontiera della scienza. E questo evidenzia anche l’importanza che gli stessi ricercatori danno al benessere di tutti gli animali. Eppure, ne sappiamo ancora relativamente poco e non abbiamo prove scientifiche tali da consentirci di fare distinzioni tra la coscienza di un vertebrato e quella di un invertebrato, e nemmeno teorie convincenti di cosa sia la coscienza stessa. «Questo non significa che io ritenga sia necessaria una legislazione altrettanto protettiva nei confronti degli invertebrati, anche perché non possiamo non tenere in considerazione anche aspetti pratici. Per esempio, non possiamo pensare di tenere i registri dei singoli moscerini della frutta e della loro prole, che è enormemente numerosa», conclude Vallortigara. «Bisogna comunque riconoscere che non abbiamo oggi una base scientifica per porre una distinzione tra, per esempio, topo e ape dal punto di vista della senzienza: dovremmo quindi semmai prevedere per tutti gli organismi viventi un principio precauzionale per cui si cerca sempre di evitare ogni forma di sofferenza».