Riguardano un meccanismo di riparazione dei danni al DNA e una risposta mediata dell’immunità innata. Per intervenire su questi bersagli sono state già identificate molecole che hanno dato risultati promettenti per tumori con mutazioni del gene KEAP1 in sperimentazioni precliniche
L’immunoterapia è una delle frontiere più promettenti per la cura di molti tipi di cancro, ma non tutti i tipi di tumore sono sensibili e alcuni sviluppano resistenze. Capire i meccanismi molecolari alla base della resistenza all’immunoterapia è fondamentale per riuscire, un giorno, ad aggirare il problema. È ciò che ha fatto un gruppo di ricercatori della New York University Grossman School of Medicine, coordinato dagli italiani Michele Pagano e Antonio Marzio, per il tumore del polmone non a piccole cellule con mutazioni del gene KEAP1.
«In genere, i tumori con alto tasso di mutazioni sono sensibili all’immunoterapia. Non è il caso, però, dei tumori al polmone non a piccole cellule con il gene KEAP1 mutato», spiega Marzio, le cui ricerche sono state sostenute da AIRC e dall’Unione europea tramite una borsa iCARE. «Ci siamo chiesti il perché e la risposta, ottenuta grazie al sostegno di Fondazione AIRC e pubblicata sulla rivista Cell, chiama in causa un duplice effetto delle mutazioni di KEAP1». Lavorando sia con cellule in coltura sia con topi di laboratorio, i ricercatori hanno scoperto che le mutazioni comportano l’aumento dei livelli di una proteina chiamata EMSY, la quale blocca un importante meccanismo utilizzato dalla cellula per riparare il proprio DNA. Ed ecco spiegato perché questi tumori presentano tante mutazioni. Inoltre, l’aumento di EMSY blocca anche la risposta all’interferone, un meccanismo che permette l’attivazione della risposta immunitaria innata contro cellule infettate da virus o cellule tumorali. Così si spiega la minor sensibilità all’azione del sistema immunitario.
Chiariti i meccanismi della resistenza, i ricercatori hanno cominciato a lavorare a nuove prospettive terapeutiche, ottenendo risultati interessanti – sempre in ambito preclinico – con due gruppi di molecole già note: gli inibitori di PARP e gli agonisti di STING. I primi agiscono sulla riparazione del DNA e sono già in uso nelle terapie per il tumore del seno e il tumore dell’ovaio metastatici con mutazioni in BRCA1/2. I secondi agiscono sulla risposta all’interferone e sono in sperimentazione clinica per il trattamento di alcuni tipi di tumore e del Covid-19.
Secondo Marzio, gli esperimenti con gli animali di laboratorio sono stati fondamentali per raggiungere questi risultati, che aprono la strada alla possibilità di sperimentazioni cliniche con i due farmaci. «Alcuni aspetti, come il blocco della risposta all’interferone, abbiamo potuto osservarli solo in un tipo di animale di laboratorio e non nelle colture cellulari, dove non è possibile ottenere e analizzare un’interazione tra cellule tumorali e sistema immunitario. Anche colture cellulari più sofisticati come gli organoidi, in tre dimensioni, non permettono di ricostruire questa interazione. Ecco perché la sperimentazione animale rimane imprescindibile. Ovviamente, deve essere condotta secondo criteri ben precisi, prescritti per legge: sostituzione degli animali con metodi alternativi quando possibile, riduzione del numero di animali utilizzati e ottimizzazione delle condizioni sperimentali, per ridurne al massimo la sofferenza».