Un recente studio pubblicato sulla rivista Cells ha impiegato organoidi polmonari umani per testare due molecole, un anticorpo monoclonale e un peptide sintetico, contro l’infezione da SARS-CoV-2: i risultati mostrano sia un ridotto ingresso del virus nella cellula sia una riduzione della risposta infiammatoria, che contribuirebbe a limitare il danno al tessuto
Negli scorsi mesi abbiamo dedicato alcuni approfondimenti agli organoidi (qui e qui), strutture tridimensionali che condividono alcune caratteristiche fondamentali con un organo di riferimento, e che sono diventati un modello importantissimo nel mondo della ricerca. Continuando su questo filone, raccontiamo qui di un recente studio, pubblicato ad aprile sulla rivista Cells, in cui proprio gli organoidi hanno fatto da modello per i test di due trattamenti da impiegare contro SARS-CoV-2. Il lavoro è frutto di una collaborazione tra l’Università di Roma Tor Vergata, il CNR, l’Università di Toronto e il Renown Health di Reno, negli Stati Uniti.
Anticorpi monoclonali e peptidi sintetici contro SARS-CoV-2
«Sebbene, a seconda delle condizioni, gli anticorpi monoclonali possa funzionare più o meno bene, questi rappresentano a oggi un importante trattamento per l’infezione da SARS-CoV-2», spiega Giuseppe Novelli, coordinatore dello studio e direttore del Laboratorio di Genetica Medica del Policlinico universitario di Tor Vergata. Queste molecole, prodotte in laboratorio, agiscono contro la proteina Spike del virus, che gli consente di entrare nelle cellule. «Tuttavia, l’emergere di nuove varianti virali, che presentano differenze in questa proteina, possono far sì che gli anticorpi monoclonali risultino meno efficaci. Nel nostro studio, quindi, abbiamo identificato un anticorpo monoclonale che potesse legare meglio la proteina del virus, così da aumentarne l’efficacia». In breve, infatti, l’anticorpo individuato dai ricercatori contiene quattro siti di legame per la proteina virale (si parla infatti di anticorpo “tetravalente”), laddove le molecole impiegate di solito ne possiedono solo due.
Un secondo possibile approccio per il trattamento dell’infezione potrebbe essere dato dall’impiego di peptidi sintetici, piccole molecole costituite da aminoacidi. Nel nuovo studio, i ricercatori ne hanno testato uno che ha la caratteristica di essere simile a un recettore presente sulle nostre cellule, chiamato DPP4. Alcuni studi suggeriscono che DPP4 potrebbe essere coinvolto nell’ingresso del virus nelle cellule, come il più noto ACE2, per il quale agirebbe come co-recettore: l’idea, quindi, è far sì che SARS-CoV-2 si leghi al peptide sintetico, rassomigliante al recettore cellulare, così che il sito dove avviene il legame risulti bloccato e il virus non possa entrare nella cellula. «Da alcuni studi, questo tipo di trattamento appare promettente e sembra assicurare sicurezza ed efficacia; quindi, nel nostro lavoro, ci siamo concentrati anche sull’uso del peptide sintetico», spiega Novelli.
Sviluppare gli organoidi polmonari
Ma come testare queste molecole? Gli studi condotti finora hanno impiegato cellule coltivate in vitro oppure modelli animali: «Nel primo caso, si sfrutta soprattutto una linea cellulare derivata da un tumore renale di scimmia; nel secondo, vi sono diverse specie, ciascuna con le sue caratteristiche, che può essere usata per lo studio dell’infezione da SARS-CoV-2. Ma sia le cellule coltivate in vitro sia i modelli animali presentano dei limiti nel replicare la fisiologia umana», continua Novelli. «Noi abbiamo quindi scelto di usare un organoide di polmone: come per tutti gli organoidi, non si tratta di un polmone vero e proprio e mancano, per esempio, la vascolarizzazione e il sistema di bronchi. Tuttavia, questo modello ci consente di lavorare su qualcosa che rassomiglia, in molte caratteristiche di base, all’organo umano, e che può dunque mostrarci molto di quanto avviene nell’organo e seguito dell’infezione – e di come funziona un trattamento».
Per creare gli organoidi di polmone, gli autori dello studio non sono partiti direttamente dalle cellule dei pazienti, che non sono facilmente accessibili. Hanno invece impiegato cellule staminali pluripontenti indotte: cellule, cioè, de-differenziate grazie all’introduzione di particolari geni, che tornano così allo stato pluripotente, dal quale possono poi differenziarsi in diversi tipi di tessuti. Molti organoidi sono creati a partire da questo tipo di cellule: coltivate in un terreno particolare, al quale sono aggiunti fattori nutrizionali e altre sostanze in grado di dirigere il differenziamento, crescono a tre dimensioni assumendo la forma dell’organo che si vuole ricreare.
«Una volta ottenuti gli organoidi polmonari, li abbiamo infettati con uno pseudovirus di SARS-CoV-2: solo pochi laboratori italiani, infatti, sono di un livello di sicurezza abbastanza elevato da poter lavorare con i coronavirus veri e propri, e in tutti gli altri casi (compreso il nostro) si lavora invece cin virus ingegnerizzati che contengono i geni d’interesse del virus, per esempio quelli che codificano per la proteina Spike. Quindi abbiamo verificato l’azione dei due trattamenti, l’anticorpo monoclonale tetravalente e il peptide sintetico», spiega Novelli.
Organoidi per lo studio di SARS-CoV-2
I risultati ottenuti dai ricercatori hanno mostrato che entrambe le molecole sono efficaci nel trattamento dell’infezione. Non solo riducono in modo significativo l’infezione, impedendo al virus di entrare nelle cellule, ma agiscono anche sulla risposta immunitaria e infiammatoria: «Nel nostro studio abbiamo osservato che il trattamento è in grado di modulare l’espressione di geni coinvolti in questi processi, cosicché la produzione di citochine e chemochine, molecole coinvolte nei processi immunitari e infiammatori, risulta ridotta», spiega ancora il ricercatore. Questo è importante, perché una ridotta infiammazione può limitare il danno al tessuto polmonare.
Questo non è il primo lavoro in assoluto che impiega gli organoidi per lo studio di SARS-CoV-2: per esempio, un articolo apparso sull’archivio di articoli preprint (quindi non ancora sottoposti alla peer review) descrive lo studio di un gruppo di ricercatori dell’Università di Kyoto che ha usato organoidi di bronchi per analizzare l’infezione, mentre studi condotti su organoidi d’intestino hanno permesso di dimostrare che il virus è in grado d’infettare anche quest’organo.
«Scarseggiano, però, i lavori che impiegano organoidi polmonari in questo campo: questo è un elemento importante del nostro studio, che conferma come questi possano essere un valido aiuto per studiare l’infezione virale e potenziali trattamenti», commenta Novelli. «Nello stesso tempo, gli organoidi aiutano anche a ridurre l’impiego di modelli animali, perché consentono di fare una prima “scrematura” tra le molecole che possono essere efficaci contro il virus. Anzi, gli organoidi che abbiamo usato noi erano stati messi a punto per studiare gli effetti di alcune sostanze tossiche – un altro campo nel quale l’impiego degli animali è ancora necessario per le valutazioni di farmacodinamica e farmacinetica, ma riducibile proprio grazie all’uso degli organoidi, così da andare nella direzione delle 3R (replacement, reduction e refinement), come indicato dall’Unione europea».