Torniamo a parlare di senzienza degli invertebrati, traendo spunto dal documento pubblicato dalla London School of Economics and Political Sciences che suggerisce la senzienza di cefalopodi e decapodi: una conclusione che può avere implicazioni sul loro commercio, ma che è soprattutto un interessante ulteriore elemento di riflessione su come noi umani ci rapportiamo alle specie con cui non condividiamo relazioni filogenetiche
È tanta l’attenzione data al benessere degli animali impiegati in ricerca. Attenzione che non riguarda solo il benessere fisico ma anche quello psicologico, e che richiama alla loro senzienza, intesa come capacità di provare sensazioni quali sofferenza e piacere. Non a caso, come avevamo scritto qualche tempo fa, la Direttiva 2010/63 EU per la tutela degli animali impiegati a scopi scientifici, ha incluso anche i molluschi cefalopodi, come unici invertebrati, nella lista degli animali tutelati per la loro capacità di “provare dolore, angoscia, sofferenza e danno prolungato”.
Sempre come avevamo già avuto modo di ricordare, definire senzienza e coscienza non è semplice, nemmeno per gli esseri umani; e poco sappiamo, a oggi, di cosa sentano gli altri animali. Se molta attenzione è volta agli animali da laboratorio, non possiamo dimenticare quelli impiegati a scopi commerciali. Anche qui, se la ricerca si è tradizionalmente concentrata sui vertebrati (per esempio, sono molti gli studi sulle abilità cognitive e l’etologia dei maiali), ora è stata estesa anche ad alcuni invertebrati. E proprio in relazione al loro impiego commerciale, un documento della London School of Economics and Political Sciences (LSE) apparso alla fine dello scorso anno ha cercato di definire un criterio che permetta di riconoscere la presenza o meno della senzienza in due gruppi di invertebrati di grande interesse economico: i cefalopodi (come polpi, seppie e calamari) e i crostacei decapodi (come granchi, gamberi, scampi).
Proviamo a fare qualche considerazione su questo tipo di studi con Anna Di Cosmo, zoologa e neuroetologa dell’Università di Napoli Federico II.
Senzienza, considerare la prospettiva di un’altra specie
Il documento della LSE, intitolato Review of the Evidence of Sentience in Cephalopd Molluscs and Decapod Crustaceans, cerca di definire la senzienza di cefalopodi e decapodi sulla base dell’analisi di di oltre 300 studi e di otto criteri principali, e cioè la presenza di: nocicettori (per la percezione degli stimoli dolorosi); di aree del sistema nervoso per l’integrazione dei segnali; di connessioni tra i nocicettori e tali aree; l’identificazione di risposte a valle della somministrazione di analgesici o anestetici; la capacità di raggiungere un compromesso motivazionale tra rischi e benefici al fine di ottenere una risorsa; l’uso di tattiche flessibili per proteggersi da una minaccia; la capacità di apprendimento associativo, ossia quello che permette di imparare dall’esperienza e, infine, la valutazione di schemi comportamentali che mostrino come l’animale apprezzi l’analgesico se ferito. Sulla base di questi criteri, autori e autrici del documento suggeriscono che esistano prove della senzienza nei cefalopodi, in particolare negli ottopodi come i polpi e nei granchi rispetto ad altri gruppi di decapodi.
«Questi criteri su cui si sono basati autori e autrici del documento raccolgono alcuni degli elementi su cui ci si basa in etologia e neuroscienze per studiare la senzienza e nessuno è considerato, da solo, una prova sufficiente a dimostrarne la presenza. Tuttavia, la loro scelta mi lascia per certi aspetti perplessa, perché si basano ancora molto sul confronto con la nostra specie», commenta Di Cosmo. «Quello del confronto è un approccio molto usato ed è senz’altro importante per individuare similitudini e differenze, ma non tiene in considerazione il contesto in cui l’animale vive e si è evoluto, e tantomeno l’unicità delle sue caratteristiche neurofisiologiche ed etologiche».
Sono considerazioni che, d’altronde, il documento della LSE riconosce: “non possiamo concludere con alcuna certezza che la senzienza sia assente negli invertebrati solo perché il loro cervello è organizzato in modo diverso da quello di un vertebrato. Per fare un’analogia, l’occhio di un cefalopode è organizzato in modo molto differente da quello di un mammifero, ma non possiamo concludere da ciò che un cefalopode non possa vedere”, riporta il testo del documento. Quindi, per riconoscere la senzienza, è necessario basarsi su caratteristiche comportamentali e cognitive: “Dobbiamo caratterizzare attentamente il tipo di comportamenti e le capacità cognitive che implicano un chiaro rischio di dolore, angoscia o danno nell’animale, e integrare queste prove comportamentali e cognitive con ciò che sappiamo sul sistema nervoso dell’animale”.
Un lavoro tutt’altro che semplice, però. Animali come i polpi, comparsi sul pianeta 450 milioni di anni fa, o come i gamberi, sono profondamente diversi da noi umani. «Per cercare di arrivare a definire la senzienza in organismi così diversi da noi, bisogna cercare di conoscere la loro struttura, la loro neurobiologia, il loro contesto ecologico ed evolutivo. E la presenza di circuiti nervosi e di molecole simili ai nostri non significa necessariamente che ci somiglino, o che abbiano esattamente la stessa funzione, ma solo che nel corso dell’evoluzione determinati meccanismi si sono affermati, hanno avuto successo dal punto di vista evolutivo e si sono conservati. Questo vale anche al contrario, naturalmente: reazioni simili possono basarsi su circuiti e molecole diverse», spiega Di Cosmo. «È per questa ragione che in ricerca si parla sempre più spesso di evoluzione convergente, per indicare che meccanismi simili in ambienti che si assomigliano non implicano per forza un certo grado di parentela né sono necessariamente collegati».
Le implicazioni per la gestione degli animali
Dal punto di vista comportamentale sono diversi gli studi che mettono in luce risposte che potrebbero essere indicative di senzienza: per esempio, è stato dimostrato che i granchi evitano le aree dove sono stati esposti a qualche forma di shock, un comportamento che la capacità di sentire il dolore, cioè la nocicezione, non basta a spiegare (non c’è ragione di evitare lo stimolo doloroso se non si percepisce il dolore in quel dato momento). . Sappiamo però ancora molto poco delle basi biologiche alla base di questi comportamenti, soprattutto per quanto riguarda gli invertebrati – e la ricerca in questo campo diventa ancora più complessa se consideriamo che molti animali hanno sistemi nervosi ben diversi dal nostro. Per questa ragione, diventa anche difficile individuare le aree del sistema nervoso coinvolte, per esempio, nel riconoscimento del dolore, che invece sono note nei mammiferi.
Il documento della LSE ha portato il governo UK a includere decapodi e cefalopodi nell’Animal Welfare (Sentience) Act, che riconosce per la prima volta a livello nazionale la senzienza degli animali non umani (e che precedentemente comprendeva solo vertebrati) in termini legislativi. Questo non influenza, in realtà, pratiche in uso, come la pesca, che coinvolgono cefalopodi e crostacei decapodi, ma vuole garantire che il benessere degli animali sia tenuto in considerazione in decisioni future. «Tra queste, la possibilità di estendere l’acquacoltura ai cefalopodi desta una certa attenzione», spiega Di Cosmo. «Tra le varie raccomandazioni che emergono dal documento della LSE, infatti, non si indicano solo quelle volte a particolari pratiche commerciali (per esempio sui metodi di pesca, di trasporto o di esposizione sui banchi di vendita) ma anche quelle relative all’acquacoltura. In particolare, autori e autrici del documento scoraggiano la possibilità di adottarla e propongono anche di bloccare l’importazione di ottopodi allevati altrove. Tuttavia, basare questa decisione su quanto sappiamo della senzienza ha al momento poco senso, sia in termini scientifici sia per coerenza rispetto alle molte altre specie allevate».
Se le implicazioni commerciali del documento possono essere controverse, vale comunque la pena evidenziare come l’introduzione di specie d’invertebrati tra gli animali senzienti contribuisce al riconoscimento di questa caratteristica anche in animali evolutivamente distanti da noi. Un aspetto importante dal quale emerge la riflessione contenuta in una perspective apparsa su Science a marzo di quest’anno e firmata dal primatologo Frans de Waal e dalla filosofa Kristin Andrews: “se i granchi sperimentano stati emotivi, allora hanno interesse che questi stati abbiano una valenza positiva (…) Questo fa sì che il dolore rappresenti per loro un danno e quindi pone agli umani l’obbligo morale di riconoscere questo danno e di evitare di causarlo, se possibile”, scrivono de Waal e Andrews. Su cosa questo implichi rispetto a come dovremmo trattarli, continuano, ci sono però ancora più domande che risposte. Ma comunque, concludono, se anche gli invertebrati sono senzienti, se sperimentano il dolore al di là della risposta meccanica data dai nocicettori, le loro esperienze emotive dovranno diventare parte del nostro “paesaggio morale”.