Sono stati pubblicati i dati relativo all’uso di animali a fini scientifici in UE, riferiti al 2020: iniziamo la nostra consueta rassegna per evidenziarne gli aspetti principali, partendo da un primo quadro sul numero di individui impiegati per la prima volta, le specie più rappresentate e la loro provenienza
La Commissione europea ha recentemente pubblicato i dati relativi agli animali impiegati in UE a scopi scientifici: le statistiche fanno riferimento al 2020 e sono di particolare interesse se si considera che questo è il primo anno per il quale ci si possono aspettare effetti dovuti alla pandemia di COVID-19.
Come ogni anno, iniziamo la nostra rassegna per riportare gli elementi più significativi del documento, cominciando da una panoramica generale sul numero di animali, le specie più impiegate e la loro provenienza.
Quanti animali
Dai dati presentati nel report, il 2020 è il primo anno per il quale il totale complessivo di animali impiegati per la prima volta in UE risulta al di sotto degli 8 milioni di individui, con un -7,5% rispetto al 2019. Questa cifra non tiene in considerazione gli animali impiegati per la creazione e il mantenimento delle linee geneticamente modificate, esaminate a parte.
È da notare anche che il totale comprende i dati della Norvegia, inclusa nel report a partire dal 2018, ma esclude quest’anno per la prima volta quelli della Gran Bretagna a seguito della sua uscita dall’UE. Per facilitare il confronto, il documento riporta la comparazione da un anno all’altro rimuovendo i dati per la Gran Bretagna.
A cosa è attribuito il calo nel numero di animali? Dei 27 Paesi che attualmente fanno parte dell’UE, sono 16 quelli che hanno riportato una diminuzione degli animali usati per i diversi fini scientifici; di questi, riporta il documento, 11 lo attribuiscono agli effetti della pandemia di COVID-19, per esempio perché i lockdown hanno ridotto le attività e perché molti progetti hanno dovuto essere posposti.
Quali specie
I dati sulle specie più impiegate non mostrano differenze significative rispetto agli anni passati: si tratta principalmente di topi, che rappresentano quasi la metà degli animali, seguiti da pesci (distinti tra zebrafish, che è il 13% circa, e altre specie, principalmente rappresentate dal salmone) e ratti. Il report evidenzia anche la continua diminuzione dell’impiego di cani e primati non umani, e anche una significativa diminuzione nel numero di cefalopodi, gli unici invertebrati inclusi nella Direttiva 2010/63/EU per la tutela degli animali impiegati a fini scientifici. Segnala anche, però, un aumento significativo dell’uso di cavalli, asini e muli (+176%, corrispondente a 2.500 individui impiegati per la prima volta).
In generale, inoltre, il numero di mammiferi impiegati per la prima volta segna una diminuzione del -10% rispetto al 2019.
La provenienza
Come ogni anno, il report dedica una sezione specifica alla provenienza degli animali impiegati, differenziando tra l’origine da allevatori UE certificati (sui quali sono dunque applicati gli standard e i controlli UE per garantirne il benessere) e altri allevamenti: UE non certificati (che comprendono per esempio animali prelevati in natura, soprattutto pesci, o provenienti da fattorie) o al di fuori dell’UE. Per quanto riguarda questi ultimi, si tratta di una percentuale intorno all’1% del totale degli animali; sono esclusi i primati non umani che, per ragioni etiche e anche di conservazione (Research4Life ne aveva parlato qui) sono conteggiati a parte.
Come negli scorsi anni, la maggior parte degli animali impiegati in UE proviene da allevamenti registrati (84,1%), con una piccola percentuale di individui importati da Stati al di fuori dell’UE. Tra le specie più comunemente provenienti dall’UE, ma non da allevamenti registrati, vi sono gatti, cani e rane (rispettivamente 49%, 37% e 29% del totale di ciascuna specie): la ragione risiede nel fatto che si tratta di animali di casa (pet) coinvolti in procedure quali i prelievi di sangue per l’analisi di disturbi genetici o coinvolti in studi per il trattamento di determinate patologie.
Per quanto riguarda i primati non umani, ricordiamo che la Direttiva incoraggia l’impiego di individui provenienti da colonie che si auto-sostengono, allo scopo di evitare il prelievo in natura che – oltre a essere uno stress importante per gli animali – ne mette a rischio la conservazione. Tuttavia, gli allevamenti UE non sono ancora sufficienti a rispondere alle attuali necessità; di conseguenza, anche quest’anno come per i precedenti, la gran parte dei primati proviene dall’Africa (47,9%) e dall’Asia (33,1%). È anche importante segnalare che la specie più rappresentata tra i primati usati nel 2020 è il macaco cinomologo, importato interamente dall’estero (soprattutto dall’Africa): si tratta, purtroppo, anche di una delle specie di primati minacciate di estinzione e per la quale, come avevamo scritto, proprio il commercio rappresenta un fattore di rischio.