Parliamo con Nicoletta Landsberger, professoressa all’Università di Milano e coordinatrice del San Raffaele Rett Research Center, della sindrome di Rett, una rara malattia genetica che interessa le femmine. E ci facciamo raccontare il ruolo della ricerca tanto nella comprensione dei complessi meccanismi che caratterizzano la malattia, quanto nello studio di possibili terapie
Con la sua incidenza di 1 caso ogni 10.000 nati, è classificata come malattia rara, ma è anche la seconda causa di ritardo cognitivo tra le femmine. Parliamo della sindrome di Rett, una malattia genetica per la quale non è oggi disponibile alcuna cura. La ricerca al riguardo, però, progredisce rapidamente e, soprattutto negli ultimi anni, abbiamo imparato a conoscere sempre meglio questa patologia e i suoi meccanismi – risultati che hanno peraltro portato, nel 2023, all’approvazione negli Stati Uniti del primo farmaco per il trattamento specifico della sindrome di Rett.
Per conoscere meglio la malattia e farci raccontare la direzione e le prospettive degli studi al riguardo, abbiamo parlato con Nicoletta Landsberger, professoressa all’Università di Milano e coordinatrice dell’Unità di ricerca Rett Syndrome and Neurodevelopmental Disorsers del San Raffaele, impegnata da oltre dieci anni nello studio della sindrome di Rett.
Cos’è la sindrome di Rett
«Il gene coinvolto nella sindrome di Rett è MECP2, che codifica per una proteina fondamentale per il corretto funzionamento del sistema nervoso. Si trova sul cromosoma X, e questo potrebbe far immaginare che, in analogia ad altre malattie legate al sesso come l’emofilia o il daltonismo, i maschi ne siano più interessati rispetto alle femmine», spiega Landsberger. «Invece, la sindrome di Rett interessa in larga prevalenza soprattutto le femmine, tanto che un tempo si pensava che i maschi con il gene mutato morissero prima della nascita. In realtà, negli ultimi anni sono stati descritti anche dei casi di maschi con la sindrome di Rett. La ragione per cui la malattia si presenta soprattutto nelle femmine, infatti, è che le mutazioni che interessano il gene MECP2 (e ne sono state descritte oltre 700) sembrano insorgere, in modo casuale (infatti la malattia non è ereditaria), soprattutto nello sperma. E, poiché è dal padre che le femmine ereditano uno dei loro due cromosomi X, ereditano anche la forma mutata del gene. I rari casi di maschi con sindrome di Rett sembrano essere dovuti a mutazioni spontanee insorte durante l’embriogenesi o a rare madri portatrici sane».
Che il gene coinvolto sia localizzato sul cromosoma X ha anche un’altra importante implicazione per i sintomi della malattia. Dei due cromosomi X presenti nelle cellule femminili, infatti, uno viene inattivato: il processo d’inattivazione è casuale, per cui, in teoria, circa la metà delle cellule dovrebbe inattivare il cromosoma di origine paterna e l’altra metà quello di origina materna. Tuttavia, in realtà, a volte sembra essere favorita l’inattivazione dell’uno o dell’altro, con modalità differenti nei diversi tessuti. In presenza di mutazioni sul gene MECP2, può dunque verificarsi una situazione nella quale è inattivato soprattutto il cromosoma con il gene mutato, e dunque la sintomatologia risulta più lieve; oppure nella quale si inattiva soprattutto il cromosoma senza mutazione, per cui la sintomatologia è più grave, soprattutto se la mancanza di proteina funzionante riguarda il tessuto nervoso.
«Possiamo insomma affermare che quella di Rett è una sindrome complessa, che può essere dovuta a molte mutazioni a MECP2, a volte coinvolgere geni differenti (che di solito determinano varianti della malattia) e presentarsi a diversi livelli di gravità», commenta Landsberger. «Anche il momento nel quale si presentano i primi sintomi è abbastanza variabile. Nella maggior parte dei casi, comunque, le bambine sembrano svilupparsi normalmente per i primi 6-18 mesi: in effetti, uno sviluppo apparentemente normale è uno degli elementi per la diagnosi clinica della malattia (sebbene alcuni studi stiano iniziando a evidenziare alcuni sintomi precoci che potrebbero un giorno contribuire a diagnosi tempestive). Successivamente, comunque, lo sviluppo psicomotorio inizia a rallentare. Comincia poi una fase di regressione nella quale le bambine perdono la maggior parte delle abilità acquisite fino a quel momento, dal gattonare al parlare. Perdono la capacità di compiere movimenti volontari, e in particolare a usare le mani, che iniziano a muovere in modo stereotipato; perdono inoltre interesse per il mondo circostante, iniziando a manifestare dei tratti autistici. Nella terza fase della malattia, che dura fino ai dieci anni circa, la situazione tende a stabilizzarsi e possono anche migliorare le abilità comunicative; in compenso, però, subentrano altri problemi: nella stragrande maggioranza dei casi, in particolare, si presenta un’epilessia farmaco-resistente, cui si aggiungono spesso anomalie respiratorie e altri sintomi, come la difficoltà a masticare e deglutire. Nella quarta fase, la malattia porta a un miglioramento dell’interesse per l’ambiente esterno e alla perdita di alcune delle caratteristiche autistiche, ma peggiora l’abilità di movimento. L’aspettativa di vita è intorno ai 55 anni, ma le donne con sindrome di Rett hanno bisogno di assistenza per ogni azione quotidiana. A causa delle difficoltà comunicative, è anche difficile capire il grado di disabilità mentale».
La ricerca sulla sindrome di Rett
Per una malattia così invalidante e priva di cura, la ricerca è essenziale. E il modello animale ha un ruolo cruciale: ricostruire le dinamiche di una patologia che interessa il sistema nervoso nel suo sviluppo, infatti, richiede inevitabilmente un organismo abbastanza complesso da permettere di individuare e seguire i diversi passaggi, i complessi meccanismi molecolari coinvolti e le interazioni con il resto del corpo. Per esempio, sappiamo che la proteina MECP2 ha un ruolo fondamentale per il tessuto nervoso, ma che effetti ha la sua assenza in altri tessuti del corpo? Uno dei sintomi che si presenta nella sindrome di Rett è l’ipotonia, cioè la perdita della forza muscolare: ma è un effetto diretto della malattia (l’assenza della proteina MECP2 influenza il tessuto muscolare), oppure è un effetto indiretto delle alterazioni a livello del sistema nervoso, che impediscono il movimento? Sono stati gli studi sui topi a dimostrare che è vera la seconda ipotesi.
I topi geneticamente modificati, continua a spiegare la ricercatrice, sono un modello (o meglio molti modelli, dal momento che ne sono stati generati diversi, con differenti tipi di alterazione del gene coinvolto) eccezionale per lo studio delle funzioni della proteina: è possibile, per esempio, generare dei topi nei quali il gene è silenziato, “spento”, solo in alcune aree del cervello, o altri distretti del corpo (come nel caso dello studio sull’ipotonia), per capire dove svolge le sue funzioni. Ancora, è possibile inattivare il gene MECP2 in fasi diverse della crescita, per capire il suo ruolo nello sviluppo: gli studi in questo senso hanno messo in luce come MECP2 sia fondamentale durante tutto l’arco della vita – suggerendo anche che un’eventuale terapia dovrebbe essere continua.
«In effetti, i topi sono per tanti aspetti un ottimo modello della malattia: sono stati creati topi privi del gene MECP2 che riproducono bene la sintomatologia umana, con tutti i sintomi che si riscontrano anche nei pazienti. Questi animali hanno permesso alcuni degli studi più importanti sulla sindrome di Rett, primo tra tutti quello che ha dimostrato che si tratta di una patologia reversibile, dandoci davvero la speranza di poter, un giorno, trovare una cura. Questa particolare ricerca è stata pubblicata nel 2007 e si basava su un topo il cui gene MECP2 era stato modificato con tecniche d’ingegneria genetica in modo da risultare “spento” ma riattivabile con la somministrazione di tamoxifene. E in effetti, quando quest’ultimo veniva somministrato e “riaccendeva” il gene, i sintomi regredivano: i topi riprendevano a muoversi, non presentavano più sintomi respiratori, eccetera. Studi successivi hanno poi mostrato che miglioravano anche le funzioni cognitiva», racconta Landsberger. «Questo filone di lavori ci ha anche insegnato che però, nel topo, c’è probabilmente una forma di compensazione da parte dell’organismo in risposta alla mancanza di MECP2: infatti, il tamoxifene deve essere somministrato in modo graduale, altrimenti il topo muore – come se vi fosse un cortocircuito tra i meccanismi di compensazione e la presenza della proteina fisiologica».
D’altronde, quando si lavora con specie diverse dalla nostra, è inevitabile che si presentino differenze. Infatti, sebbene i topi riproducano molto bene la malattia, la maggior parte degli studi è condotta nel topo maschio anziché nella femmina (il sesso preferenzialmente ammalato nella specie umana). La ragione è che i topi maschi riproducono molto bene i sintomi, che si presentano in modo costante nella gravità, e rapidamente, elemento che permette di accelerare gli studi. Nella femmina, a causa dell’inattivazione di uno dei cromosomi X, i sintomi sono più variabili e leggeri, con insorgenza tardiva. «Siamo consapevoli che, ancora oggi, non è chiaro quale sia il modello animale migliore per lo studio della sindrome di Rett. Quando lo scopo è comprendere il ruolo e le funzioni di MECP2 nel cervello, è corretto usare i topi maschi; quando invece si mira a comprendere le caratteristiche della patologia, bisogna considerare anche le femmine. E quando si studia un farmaco, possiamo usare inizialmente i topi maschio, che consentono studi più riproducibili, più chiari nei risultati e più veloci; ma il beneficio di un farmaco deve poi essere confermato anche nella femmina», spiega Landsberger.
Pur tenendo in considerazione questi aspetti, il topo geneticamente modificato ha un ruolo centrale nello studio non solo della malattia ma anche dei possibili trattamenti. Tanto più che, trattandosi appunto di una malattia rara nella popolazione, mettere a punto i trial clinici non è semplice, perché ci si può concentrare solo su campioni piccoli. È solo partendo dai modelli animali che è stato possibile arrivare, per esempio, al primo trattamento approvato (al momento solo negli Stati Uniti) finora per la sindrome di Rett: è basato su una molecola che si è dimostrata in grado di migliorare i sintomi neurologici e respiratori della malattia. In Europa, sono in fase di studio alcune sostanze che sono state classificate come “medicine orfane”, una categoria che consente di ricevere incentivi per gli studi al riguardo ma che non sono ancora approvate per il mercato. Sono inoltre in corso dei trial clinici per la terapia genica: l’idea è di introdurre una copia del gene MECP2 “corretta”, sfruttando vettori che lo trasportino nell’organismo. A questi si aggiungono gli studi di editing del genoma (tra cui uno guidato dall’Università di Siena), cioè mirati a correggere le mutazioni direttamente nel DNA e condotti sia su modelli cellulari in vitro sia sul modello animale.