Prima di arrivare ai trial clinici, i farmaci devono essere testati su due diverse specie: approfondiamo la normativa che lo prevede e gli studi per capire se sia possibile, in ottica 3R, restringere i test a una sola specie animale

Nel processo di valutazione di nuovi farmaci è previsto che questi siano testati su due diverse specie, un roditore e un animale diverso. Perché? Ed è possibile pensare di evitare questo doppio passaggio, in modo da limitare il numero di animali usati nei test farmacologici?

Cosa prevede la normativa

A livello europeo, il requisito del test su due specie è previsto dalla Direttiva 2001/83/CE: prima di essere sperimentato nell’essere umano, un potenziale farmaco deve essere sottoposto a diverse prove di tossicità. Quella acuta, per fare un esempio, è riferita alla capacità della sostanza di causare effetti negativi sulla salute in seguito a un’esposizione singola e breve; mentre con tossicità subacuta si indicano eventuali effetti negativi rilevati dopo la somministrazione a dosi ripetute della sostanza che emergono in un arco di tempo relativamente breve, di poche settimane. Ancora, la tossicità cronica è riferita a effetti negativi che compaiono in tempi più lunghi dopo somministrazioni ripetute. Ci sono poi i test relativi alla tossicità “embrio-fetale”, per evidenziare danni alla madre e/o al feto, come per esempio alterazioni della crescita e dello sviluppo a causa dell’esposizione a una determinata sostanza durante la gravidanza: sono i cosiddetti effetti teratogeni.

Insomma, sono diversi gli aspetti da valutare per i candidati farmaci e non solo richiedono tutti i test sugli animali ma molti di essi, secondo la Direttiva europea, prevedono di valutare la tossicità su due specie diverse. Non è specificato l’animale da usare, ma è indicato che si deve scegliere la specie più idonea: i roditori sono di solito rappresentati da topi o ratti, i non-roditori sono solitamente cani, maiali o primati. Il principio è ribadito anche dall’ICH guideline M3(R2) on non-clinical safety studies for the conduct of human clinical trials and marketing authorisation for pharmaceuticals, documento di riferimento a livello globale che specifica i requisiti per i test preclinici.

La ragione di questa richiesta normativa segue il principio generale della sperimentazione sugli animali per i nuovi farmaci: evidenziare eventuali effetti negativi così da ridurre il rischio nei trial clinici condotti sugli esseri umani. L’uso di due specie, in particolare, limita il rischio di dipendere esclusivamente da una singola fisiologia animale, che potrebbe non rappresentare accuratamente la risposta umana, e aumenta la probabilità di identificare potenziali effetti tossici o collaterali.

È importante precisare che si parla sempre di limitazione del rischio, non del suo azzeramento. Infatti questo tipo di test non può tenere in considerazione, per esempio, ciò che avverrà su uno specifico individuo con la patologia da trattare o con altre malattie o caratteristiche che possono modificare l’effetto del farmaco, né tenere in considerazione ogni effetto collaterale. Come abbiamo raccontato qualche tempo fa, infatti, non tutti i farmaci testati sugli animali arrivano poi infatti sul mercato umano; tuttavia, sono fondamentali per iniziare a rilevare eventuali effetti che, per esempio, si presentano su organi diversi da quelli target (come disturbi al fegato causati da un farmaco pensato per il cuore).

Quando si può fare ricorso a una sola specie?

Non tutti i farmaci richiedono sempre il ricorso a due specie. È il caso dei farmaci biologici, cioè quelli che contengono uno o più principi attivi prodotti o estratti da un sistema biologico, come gli anticorpi monoclonali e alcuni tipi di vaccini. Si tratta di un gruppo di farmaci la cui azione è molto mirata: agiscono infatti su ben specifiche strutture biologiche, per esempio recettori cellulari, che possono non essere presenti in specie diverse dalla nostra. Proprio per questa ragione, il documento di riferimento adottato a livello globale, l’ICH S6(R1): Preclinical safety evaluation of biotechnology – derived pharmaceuticals prevede l’uso di una sola specie animale quando giustificato dal punto di vista scientifico, specialmente se una sola specie è rilevante per il meccanismo d’azione del farmaco (e spesso si tratta di animali transgenici, modificati geneticamente proprio per avere lo specifico bersaglio biologico).

Qualcosa di simile vale per i farmaci oncologici: per rendere più veloce il loro sviluppo, in considerazione della letalità di molti tumori e dell’efficacia ancora limitata di alcune chemioterapie, è previsto che alcuni test possano essere condotti su una singola specie.

Gli studi per ridurre ulteriormente l’uso di animali

Ma è possibile ampliare ulteriormente i casi in cui non siano richiesti, per legge, i test su due specie, in virtù dei dati già esistenti e dello sviluppo di nuovi metodi alternativi? È una domanda su cui il mondo scientifico si sta interrogando, e negli ultimi anni sono stati condotti degli studi per cercare di rispondere. Va detto da subito che i risultati non sono conclusivi e che, globalmente, il sistema di sperimentazione su due specie si è finora dimostrato molto affidabile nel ridurre i rischi per i volontari umani che partecipano ai successivi trial clinici.

Comunque, il lavoro più significativo in questo senso è nato dalla collaborazione, iniziata nel 2016, tra il National Centre for the Replacement, Refinement and Reduction of Animals in Research (NC3Rs) e l’Association of the British Pharmaceutical Industry (APBI). Il gruppo di lavoro ha condotto una vasta analisi per cercare di capire se entrambe le specie (roditore e non roditore) fossero sempre necessarie negli studi tossicologici, analizzando i dati di 172 candidati farmaci “in cieco” (cioè senza sapere l’identità del composto). La maggior parte era stato testato su due specie (almeno per alcuni tipi di test), una piccola percentuale (33 farmaci, prevalentemente biologici) su una soltanto. Secondo autori e autrici dello studio, «I dati raccolti indicano che ci sono numerosi esempi in cui l’utilizzo di due specie potrebbe non aver fornito ulteriori dati tossicologici che avrebbero potuto essere ottenuti utilizzando una sola specie».

Insomma, un margine di miglioramento può esserci, anche se dev’essere chiaro che il tema è complesso, perché richiede di considerare il tipo di valutazione che si vuole eseguire (per esempio tossicità acuta o subacuta) e valutare per ciascuna i risultati; sarebbe inoltre necessario fornire dati chiari e supporto per le aziende in un eventuale cambio di paradigma, che a sua volta richiede un’estesa revisione della normativa vigente. Alla base di tutto ciò, avvertono autori e autrici dello studio, servono anche ulteriori studi per garantire la massima sicurezza dei farmaci che arrivano ai trial clinici.

Tuttavia, a partire da questo primo studio, il NC3Rs ha iniziato una fase 2, focalizzata sulla tossicità a lungo termine, per capire per esempio con quale frequenza tossicità simili vengano identificate in studi a breve termine tra specie diverse. Il lavoro è partito solo nel 2023 e saranno dunque necessari alcuni anni per vederne i risultati; una volta disponibili, però, saranno una risorsa preziosa per un’applicazione delle 3R – e più precisamente della reduction, riduzione degli animali usati – che abbia una valida base scientifica, a tutela tanto degli animali quanto delle persone destinatarie dei farmaci.

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