Com’è nata la normativa internazionale che prevede l’obbligo di testare i farmaci sugli animali prima dei test sugli umani (e della loro introduzione in commercio)? Ne ripercorriamo la storia nei suoi due fulcri critici: la vicenda dell’Elixir Sulfanilamide e della talidomide
Più volte, su questo sito, abbiamo spiegato come e perché il percorso di approvazione dei farmaci preveda l’uso di animali: per esempio, abbiamo descritto le diverse fasi della sperimentazione, da prima che un candidato farmaco arrivi agli animali a prima che arrivi ai trial sugli umani, e anche gli obblighi normativi dell’uso di due diverse specie per i test tossicologici.
Ma da dove nascono questi obblighi?
Dal punto di vista storico, la ricerca farmacologica rappresenta un percorso continuo: la nostra specie ha da sempre cercato di trovare sostanze che permettessero il trattamento delle malattie che la interessano, cercandoli e sperimentandoli in modo più o meno casuale. Chiedersi dunque se ci sia stato un momento specifico che ha portato a leggi specifiche per l’introduzione di queste sostanze in commercio, tutto sommato, non è banale.
In effetti, per gran parte di questo percorso abbiamo fatto a meno di leggi che prevedessero l’obbligo di sperimentazione animale per i farmaci (in compenso, la sperimentazione avveniva comunque, per indagare anatomia e meccanismi fisiologici, senza alcuna tutela per gli animali stessi). Le normative sono infatti piuttosto recenti: anzi, a livello strettamente formali le prime sono arrivate solo negli anni ’60 del secolo scorso.
USA: il caso dell’Elixir Sulfanilamide
Ma rendermi conto che sei esseri umani, tutti miei pazienti, uno di loro il mio migliore amico, sono morti perché hanno assunto un medicinale che avevo prescritto loro in buona fede, e capire che quel medicinale, che avevo utilizzato per anni in casi simili, era improvvisamente diventato un veleno mortale nella sua forma più recente e moderna, come raccomandato da una grande e rispettabile azienda farmaceutica del Tennessee: ebbene, questa consapevolezza mi ha procurato giorni e notti di agonia mentale e spirituale che non avrei mai creduto che un essere umano potesse sopportare e sopravvivere.
Questo estratto proviene da una lettera firmata da Archie Calhoun, un medico statunitense, nel 1937. La “forma recente e moderna” di cui parla è l’Elixir Sulfanilamide che, nell’arco di due mesi, aveva causato la morte non solo dei suoi pazienti ma di oltre un centinaio di persone in diverse nazioni degli Stati Uniti.
Il principio farmacologico del prodotto non era eccezionalmente innovativo: si trattava appunto della sulfanilamide, un antibiotico brevettato già nel 1909 e usato contro le infezioni da streptococco. Diversa dal solito era invece la sua formulazione: nel 1937, infatti, l’azienda farmaceutica S. E. Massengill Company aveva prodotto e commercializzato uno sciroppo a base di sulfanilamide. E, come solvente, usò il dietilenglicole (DEG): fragranza e sapore risultarono soddisfacenti, e tanto bastò per introdurre il nuovo sciroppo sul mercato con il nome di Elixir Sulfanilamide. Un elisir il cui contenuto, come titola un articolo apparso nel 1981 sull’FDA Consumer Magazine, si può riassumere in “sapore di lampone, sapore di morte”.
La S. E. Massengill Company non aveva condotto alcun test di sicurezza per il nuovo prodotto: fu solo quando i pazienti (tra cui molti in età pediatrica) iniziarono a farne uso, quindi, che il DEG si rivelò altamente tossico per i reni.
Le morti causate dall’Elixir Sulfanilamide scossero profondamente l’opinione pubblica e il governo americano, evidenziando la necessità di una normativa rigorosa per i nuovi farmaci. Nell’arco di pochi mesi, nel giugno 1938, l’allora presidente Roosvelt firmò il Federal Food, Drug, and Cosmetic Act (FFDCA), la prima legge a richiedere la valutazione di sicurezza di tutti i nuovi farmaci prima della loro commercializzazione (che doveva essere approvata dall’FDA), la registrazione obbligatoria delle aziende farmaceutiche e l’etichettatura chiara e precisa dei prodotti. Il test sugli animali non erano richiesti in modo esplicito, ma l’obbligo a condurre i test preclinici di sicurezza rendeva implicitamente necessario.
L’Europa e il caso della talidomide
Se la vicenda dell’Elixir Sulfanilomide si era verificata negli Stati Uniti, pochi anni dopo anche l’Europa avrebbe vissuto le conseguenze della mancanza di verifiche rigorose sui farmaci. È il 1957 quando in Germania viene commercializzato un farmaco, la talidomide, proposto per contrastare l’ansia, i disturbi del sonno e la nausea. Era sponsorizzato come “farmaco meraviglioso”, non richiedeva ricetta medica e divenne popolare tra le donne in gravidanza contro le nausee dei primi mesi della gestazione. Dalla Germania raggiunse in breve molte altre regioni del mondo, anche al di fuori dell’Europa, comprese Canada, Australia e Nuova Zelanda, dove veniva commercializzato con nomi differenti.
Stavolta, il farmaco era stato testato in topi, ratti, porcellini d’India e conigli, e appariva sicuro. Ma nessun test era stato condotto su femmine gravide.
Nell’ottobre 1959, un neurologo tedesco, Ralf Voss, segnalò all’azienda produttrice della talidomide, la Chemie Grünenthal, tre casi di sue pazienti che, dopo aver assunto per un anno il farmaco, avevano sviluppato neuropatia periferica, una condizione di malfunzionamento dei nervi periferici che causa sintomi quali la perdita di sensibilità e forza agli arti. L’azienda negò l’esistenza di tali effetti collaterali, ma Voss ripresentò i suoi casi durante un congresso a Düsseldorf nell’aprile del 1960: numerosi altri medici iniziarono a segnalare simili effetti collaterali che potevano essere associati all’uso della talidomide. Al crescere delle segnalazioni, nel maggio 1961 la Grünenthal introdusse l’obbligo di ricetta per la talidomide.
Nel frattempo, stava emergendo anche un altro effetto della talidomide. Il farmaco, infatti, poteva indurre malformazioni congenite nei feti quando assunto in gravidanza, soprattutto prima del terzo trimestre. Collegare le malformazioni con l’assunzione di talidomide non fu immediato, per varie ragioni: per esempio, non tutte le donne che assumevano la talidomide durante la gravidanza avevano figli con malformazioni, perché gli effetti dipendevano dal momento preciso in cui il farmaco veniva assunto (cioè il periodo critico dello sviluppo degli arti), né era del tutto noto che molte sostanze sono in grado di attraversare la placenta, ritenuta una sorta di filtro protettivo per il feto (sebbene fossero già noti gli effetti negativi dell’assunzione di alcol in gravidanza). Inoltre, a quel punto la talidomide era commerciata in molti paesi con nomi diversi, un aspetto che rendeva frammentarie le informazioni cliniche, tanto più se si considera che all’epoca non esistevano sistemi coordinati per raccogliere segnalazioni di reazioni avverse su larga scala.
Nel tempo, comunque, l’associazione tra l’assunzione di talidomide e la focomelia dei neonati divenne chiara e nel 1961 il farmaco fu ritirato dal commercio.
Si stima che tra il 1957 e il 1961, oltre 10.000 bambini in almeno 46 paesi nacquero con gravi malformazioni congenite (focomelia), spesso senza braccia o gambe sviluppate. Negli Stati Uniti, il farmaco non era stato approvato proprio perché i dati sulla sua sicurezza erano stati ritenuti insufficienti: per questa scelta, la responsabile della decisione, Frances Oldham Kelsey, fu insignita nel 1962 del President’s Award for Distinguished Federal Civilian Service, il più alto riconoscimento conferito dal Presidente degli Stati Uniti a dipendenti civili federali per servizi eccezionali resi al governo.
Una normativa internazionale
Le leggi che prevedono l’obbligo di testare i farmaci sugli animali prima di utilizzarli nei trial clinici sulla nostra specie affondano le loro radici in questi due casi significativi: gli Stati Uniti e l’Europa si allinearono progressivamente verso normative simili, promuovendo la sicurezza attraverso agenzie di regolamentazione (rispettivamente FDA, EMA) e introducendo requisiti armonizzati. Dal punto di vista formale, l’obbligo di sperimentazione sugli animale è stato introdotto in modo progressivo: gli emendamenti del FFDCA introdotti negli Stati Uniti dopo la vicenda della talidomide in Europa portò all’obbligo di testare le sostanze su due specie (compresa una valutazione dei potenziali effetti sul feto), e furono la base per la Direttiva 75/318/CEE del 1975, che stabilì in Europa gli stessi requisiti (e che oggi è stata sostituita dalla Direttiva 2001/83/CE); a livello internazionale, il consolidamento lo si ebbe con le linee guida dell’ICH, negli anni ’90.
Se oggi esistono protocolli rigorosi che garantiscono la sicurezza dei farmaci, è perché eventi come quelli dell’Elixir Sulfanilamide e della talidomide hanno evidenziato in modo drammatico le lacune del sistema dell’epoca. Certo, la ricerca, compresa quella farmacologica, è un percorso continuo e, nel suo evolversi, porta anche strumenti come i modelli alternativi che ci permettono di bilanciare le responsabilità etiche con la tutela dei pazienti, limitando la necessità di ricorrere, in alcuni casi, all’uso degli animali.
Per concludere questa rassegna storica, due parole ancora sulla talidomide. Il farmaco non è stato abbandonato. Oggi ne è ovviamente vietata la prescrizione per le donne in gravidanza, ma è tutt’ora usato: non come anti-emetico, ma per il trattamento per esempio del mieloma multiplo, della lebbra lepromatosa, di alcune complicanze dell’infezione dell’HIV e della malattia di Crohn. Ricerche successive alla vicenda nata negli anni ’50, infatti, ne hanno evidenziato le proprietà immuno-modulatorie.