C’è un equivoco frequente, quando si parla di sperimentazione animale: da un lato si immagina il mondo della ricerca che si barrica a difendere l’uso delle cavie in laboratorio, e dall’altro un sottobosco alternativo, non meglio definito, ma ignorato, anzi osteggiato, dalla cosiddetta “scienza ufficiale”, che, forse in cantina o nel garage di casa, ha messo a punto metodi che già potrebbero sostituire perfettamente gli animali con colture cellulari e programmi al computer, ma che non vengono diffusi per difendere interessi superiori.
La realtà è molto diversa. Sono i ricercatori stessi a lavorare per trovare ogni espediente per ridurre l’uso degli animali, non solo per ragioni etiche, ma anche per i costi e l’impegno che la gestione di uno stabulario comporta. Nelle voci di spesa di una ricerca, quelle riferite agli animali sono seconde solo agli stipendi del personale. Ovvio che gli istituti di ricerca indipendenti, che lavorano in cronica carenza di fondi, facciano il possibile per tagliarle. E che le grandi multinazionali del farmaco, da parte loro, proprio a tutela dei loro interessi, siano in prima linea tra gli enti che sostengono e finanziano fondazioni e centri per la ricerca di “metodi alternativi” come FRAME, il Fondo britannico per la Ricerca di Metodi Alternativi alla sperimentazione animale o il CAAT, Centre for Alternatives to Animal Testing della Johns Hopkins University di Baltimora.
La norma che già obbliga qualunque laboratorio ad adottare metodi di indagine diversi dagli animali non appena questi siano disponibili è quindi applicata senza grandi sforzi: il punto è che questi metodi (vedi intervista a Maura Ferrari, del Centro Referenza Nazionale Metodi Alternativi, Benessere e Cura degli Animali, presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna) devono garantire almeno la stessa affidabilità di quelli in vivo.«La messa a punto e la validazione di test per valutare irritazione e corrosione cutanea e oculare, per esempio, hannogià permesso di escludere la fase di sperimentazione sugli animali dalla produzione dei cosmetici» spiega Giuliano Grignaschi, segretario generale di Research4Life nonché Facility Manager dell’Istituto Mario Negri di Milano. «Software sempre più sofisticati, poi, oggi esaminano le caratteristiche strutturali di centinaia di migliaia di molecole per selezionare solo le migliori candidate a colpire un determinato bersaglio, e quindi diventare farmaci. Solo le più promettenti vengono poi messe alla prova sul campo, risparmiando così tempo, denaro e vite animali».
«Niente di tutto questo comunque è in grado di sostituire completamente le cavie» interviene Silvio Garattini, direttore dell’Istituto farmacologico Mario Negri di Milano: «per cui non è corretto chiamarli “metodi alternativi”, ma piuttosto “complementari”. E solo gli scienziati hanno le competenze per svilupparli» ha ribadito in occasione del convegno “Promuovere il dialogo tra in vivo, in vitro e in silico” che si è tenuto all’istituto milanese il 18 maggio scorso. «Bisogna quindi uscire dalla logica della contrapposizione e trovare il modo di ridurre l’uso degli animali migliorando la qualità e la sicurezza della ricerca, non il contrario».
Dello stesso parere si è dichiarato Thomas Hartung, direttore del CAAT, una vita dedicata alla ricerca di metodi complementari su entrambe le sponde dell’Atlantico: «Il lavoro del mio centro avviene grazie al finanziamento di grandi istituzioni come i National Institutes of Health statunitensi, la Food and Drug Administration e la Commissione europea» ha detto ai ricercatori riuniti al convegno.«Se pubblichiamo su riviste come Nature è perché facciamo scienza, non certo perché difendiamo un’ideologia».
Sono gli scienziati ad aver messo a punto nuovi modelli animali a cui non si applicano i limiti imposti dalla normativa vigente, che emotivamente suscitano meno difficoltà e che dal punto di vista scientifico forniscono grossi vantaggi rispetto alle cavie tradizionali: «A partire dal classico moscerino della frutta, Drosophila melanogaster, fondamentale per gli studi di genetica, al pesce Zebrafish, sempre più utilizzato nei laboratori, fio al verme Caenorhabditis elegans, che negli ultimi anni è diventato una vera star, contribuendo al successo di ben tre premi Nobel» aggiunge Grignaschi.
Solo al Mario Negri si è passati dagli oltre 33.000 roditori utilizzati nel 1990 ai 12.500 del 2015«Il 70 per cento del lavoro che si fa qui è condotto in vitro» precisa Garattini, «ma attenzione: se è vero che ci sono differenze tra uomini e roditori, la distanza tra la complessità dell’organismo umano e la semplificazione offerta da una coltura in vitro è ancora maggiore. Non dimentichiamo che con i roditori abbiamo il 90% delle proteine in comune, circa il 98% del DNA codificante, gli stessi sistemi fisiologici, e così via».
Anche i ricercatori comunque sanno bene che i modelli animali hanno i loro limiti: una percentuale ancora troppo alta di farmaci, tra quelli che arrivano a essere sperimentati sull’uomo, non conferma sul campo i risultati ottenuti sulle cavie.
«Se è ingenuo pensare che un topo rimpiazzi l’uomo, lo è ancora di più pensare che possano farle colture cellulari di cui ormai sono ben noti i difetti» spiega Hartung: «Il 20-30 per cento delle cellule su cui si lavora hanno perso le caratteristiche che attribuiamo loro e in una simile percentuale di casi sono infette da micoplasma. La scienza del nostro secolo ha bisogno di colture cellulari nuove, non di quelle sviluppate nel secolo scorso».
Una nuova prospettiva di lavoro viene quindi dalle cellule staminali, e in particolari dalle cosiddette iPSC, cellule staminali pluripotenti indotte, ricavate dalla pelle di qualunque individuo e poi indirizzate a riprodurre in coltura ogni tipo di tessuto.
Con questa tecnica, che ha meritato a Shinya Yamanaka il premio Nobel nel 2012, oltre che con staminali estratte direttamente dai tessuti, si riescono oggi a ottenere “organoidi” tridimensionali che riproducono la struttura e la funzione di reni, pancreas, stomaco, intestino e perfino del cervello.
Al convegno di Milano Hartung, in particolare, ha presentato i suoi “minicervelli”, organoidi di circa 350 micron di diametro, costituiti da tutti i tipi cellulari presenti nel cervello(con l’eccezione della microglia), organizzati come in un embrione, con attività elettrofisiologica misurabile. «Dalle cellule della pelle di una persona sana o ammalata si possono ottenere circa 800 minicervelli» spiega Hartung, «che permettono di ricreare in laboratorio le fasi di sviluppo dell’organo di una persona con sindrome di Down o con un disturbo dello spettro autistico e osservarle dal vivo, passo a passo. Dal confronto con quel che accade in minicervelli prodotti da cellule di persone sane potremo capire meglio quel che accade e testare nuovi farmaci, per esempio per il Parkinson».
La ricerca però non si ferma ai tessuti nervosi. Non a caso Hartung ha chiamato genericamente Organoids lo spin off che vende ai laboratori di tutto il mondo questi prodotti. L’obiettivo è di sviluppare con la stessa tecnica altri modelli del genere e poi cercare di collegare tra di loro i dieci principali organi con una sorta di circolazione artificiale, in modo da cercare di riprodurre la complessità della fisiologia umana. All’idea stanno già lavorando diversi laboratori, grazie a un finanziamento straordinario di 200 milioni di dollari stanziato dal governo americano.
I modelli così costruiti non permetteranno certamente ancora di sostituire gli animali, soprattutto per malattie complesse, in cui è fondamentale il ruolo del sistema immunitario, ma possono fornire informazioni interessanti.
Esempi di questo tipo sono stati portati al congresso di Milano da Arti Ahluwalia, bioingegnere del Centro di ricerca multidisciplinare dell’Università di Pisa. «Tra gli scopi per cui si usano animali in laboratorio, il più rilevante è quello di utilizzarli come modelli della fisiopatologia umana» ha spiegato, con il suo curioso accento toscano acquisito, la ricercatrice, nata in Kenia e formata in Gran Bretagna.«Nessuna coltura cellulare tradizionale infatti è in grado di offrire le stesse caratteristiche: non solo la somiglianza genetica, ma la tridimensionalità e la struttura gerarchica degli organi, per non parlare della risposta sistemica mediata dalla circolazione sanguigna. Per questo la strada per ridurre l’uso degli animali nella ricerca, a mio parere, passa attraverso il superamento della classica piastra di Pietri, che negli anni si è evoluta moltiplicando il numero dei pozzetti ma mantenendo una struttura statica, monostrato e bidimensionale, caratterizzata da un unico tipo cellulare».
Ai ricercatori riuniti a Milano, Ahluwalia ha mostrato come la bioingegneria possa fornire nuovi criteri per mettere a punto bioreattori nei quali coltivare le cellule in maniera da riprodurre gli elementi di tridimensionalità, struttura gerarchica e circolazione per i quali si usano gli animali. Connettendo tra loro colture di tessuti cresciuti in 3D su appositi supporti, si può per esempio mimare quel che accade nell’organismo di un paziente con sindrome metabolica e, dosando le quantità di tessuto adiposo nel sistema, modificare le condizioni di studio, riproducendo quelle dei pazienti reali con diversi gradi di obesità.
«La sfida è tecnologica ma anche culturale» commenta la scienziata. «Occorre che tutte queste innovazioni tecnologiche, dai laboratori dove si studiano i cosiddetti “metodi alternativi” si diffondano anche in quelli dove si fa ricerca di base, anche attraverso la mediazione e l’integrazione fornita dall’informatica».
Accanto ai metodi in vitro e in vivo, infatti, esistono quelli detti per affinità “in silico”, cioè che sfruttano le capacità di elaborazione dati dei più moderni computer per indirizzare e accelerare alcune fasi della ricerca.
Emilio Benfenati, a capo del Laboratorio di chimica ambientale e tossicologia dell’Istituto farmacologico Mario Negri di Milano, in chiusura del convegno ha parlato anche delle prospettive di questo terzo approccio, che essendo “virtuale” è assolutamente ecologico e non richiede l’uso di sostanze chimiche né animali, e non produce scarti. «Sfruttare i computer nella ricerca biomedica ha però altri, importanti vantaggi» ha spiegato il ricercatore: «I metodi “in silico” permettono infatti di affrontare la complessità di milioni di processi in una rete apparentemente semplice, su larga scala, in tempi relativamente rapidi e costi contenuti, nemmeno paragonabili a quelli che sarebbero richiesti passando direttamente alle fasi sperimentali».
Inoltre, le conoscenze ottenute in questo modo possono essere condivise in tempo reale con altri gruppi in tutto il mondo, ottimizzando le risorse e riducendo gli sprechi e le sovrapposizioni.
«Non bisogna tuttavia dimenticare che questi metodi sono di tipo euristico, servono cioè a proporre teorie che andranno poi verificate rigorosamente in laboratorio. Sia che si tratti della tossicità di una sostanza chimica o dell’efficacia di un farmaco, nessun software può fornirci certezze, ma soltanto probabilità» conclude il ricercatore. Ecco perché, per molti anni ancora, potremo parlare di “metodi complementari”, ma non di vere alternative alla sperimentazione animale.
Roberta Villa
Per chi fosse interessato, è disponibile il video dell’evento.