Quanti animali sono impiegati a scopo scientifico, come la ricerca o, per esempio, per i test di sicurezza in Unione europea? Quali le specie più coinvolte? Ogni anno, l’UE raccoglie queste e altre informazioni in un report, che ci aiuta anche a comprendere se stiamo andando in direzione del principio delle 3R. Qui iniziamo a riportare alcuni dei dati principali che emergono dal report 2022 (i cui dati sono riferiti al 2019)
Il nuovo report sui dati degli animali impiegati a scopi scientifici nell’Unione europea è stato pubblicato da poco. Il documento raccoglie le informazioni provenienti dagli Stati membri e dalla Norvegia (inclusa per la prima volta dallo scorso anno) riferite al 2019, in accordo con la direttiva 2010/63/EU per la tutela degli animali usati a scopi scientifici.
Riportiamo qui alcuni degli elementi principali che emergono dal report, iniziando a guardare il numero di animali, le specie impiegate e la loro provenienza.
Quanti e quali animali
Rispetto al 2018, non si registrano cambiamenti sostanziali nel numero di animali impiegati per la prima volta a scopi scientifici: si tratta infatti di circa 10,4 milioni, quindi una leggera diminuzione rispetto all’anno precedente.
Come per i dati del 2018, ricordiamo che l’aumento che si osserva rispetto al 2015-2017 deve tenere in considerazione la recente inclusione di dati norvegesi nella stima. È da notare anche che questo è l’ultimo report a includere i dati della Gran Bretagna: dal prossimo anno, con l’uscita del Paese dall’Unione europea, non saranno più compresi. Questo è uno degli elementi che distingueranno i prossimi report da quelli oggi a disposizione: tra gli altri cambiamenti, che potranno comportare alcune difficoltà nel confronto dei dati, vi è anche la scelta di indicare con maggior dettaglio alcune categorie delle specie impiegate o del tipo d’impiego, allo scopo di limitare un impiego eccessivo della categoria “altri” e avere una documentazione più precisa.
Quali specie
Come per quanto riguarda il numero di animali impiegati per la prima volta, si mantengono sostanzialmente invariati i dati riguardanti le specie coinvolte: si tratta per la maggioranza di topi, seguiti da pesci e ratti. Tra i pesci, vale la pena specificarlo, la direttiva 2010/63/EU richiede di distinguere lo zebrafish (Danio rerio), una specie modello ampiamente coinvolta nella ricerca, da altre specie: in particolare, riporta il documento, lo zebrafish rappresenta il 20% degli animali impiegati per la prima volta nel 2019, mentre tra le “altre specie” il più rappresentato è il salmone (è da considerare che, in alcuni Paesi, l’impiego di pesci diversi dallo zebrafish raggiunge percentuali molto alte rispetto alle altre specie: per esempio, in Norvegia sono oltre il 90%).
Per quanto riguarda le altre specie, sebbene i numeri siano limitati, il report evidenzia un aumento sostanziale di anfibi e cefalopodi, i primi per scopi di conservazione e i secondi coinvolti in studi per il benessere animale. Inoltre, anche se sempre su cifre limitate, si segnala una diminuzione nell’uso di cani e primati non umani. Tuttavia, vale la pena osservare che il report raccoglie i dati del periodo pre-pandemico: si può facilmente supporre che il prossimo anno, almeno per quanto riguarda i primati non umani, le percentuali risulteranno diverse a causa della ricerca sui vaccini contro SARS-CoV-2).
L’origine degli animali impiegati a scopi scientifici
Qualche parola, infine, sull’origine degli animali. Un dato positivo è che rimane bassa la percentuale di quelli provenienti da Paesi al di fuori dell’UE, nei quali dunque non sono seguiti gli stessi standard e le regolamentazioni vigenti in UE che ne tutelano il benessere; invece, la stragrande maggioranza proviene da allevamenti UE registrati. Il 12%, pur provenendo da Stati membri, non arriva da allevatori certificati – questo non significa che si tratti di allevamenti fuori norma, ma solo che si tratta di individui provenienti per esempio da fattorie, o prelevati in natura a scopi scientifici, come avviene per esempio spesso per i pesci.
Sono considerati a parte i primati non umani, che godono di una tutela maggiore rispetto alle altre specie. Allo scopo di porre fine alla necessità di prelevarli in natura, la direttiva 2010/63/EU richiede che ci si basi sempre di più sulle colonie auto-sostenute in cattività: nel 2019, in effetti, si vede un leggero aumento dei primati provenienti dalla seconda o successive generazioni di animali in cattività, e nessun esemplare è stato catturato in natura. I primati derivano soprattutto dall’Africa e dall’Asia, e il 12% da allevamenti europei.