Abbiamo riassunto nei precedenti articoli alcuni degli elementi più significativi che emergono dal report europeo riferito all’impiego degli animali a scopi scientifici nel 2018. In quest’articolo, diamo un’occhiata più da vicino ai dati italiani
Dopo aver dato un’occhiata ai dati sul numero di animali e sulle diverse specie impiegate a scopo scientifico in Unione europea e ai diversi scopi dell’impiego, proviamo ora a riassumere alcuni dei dati principali che emergono dalla terza sezione del report pubblicato a luglio, in accordo con la direttiva 2010/63/EU. Questa parte, infatti, raccoglie i dati per ciascuno dei Paesi membri e della Norvegia (che, lo ricordiamo, è stata inclusa nel report quest’anno per la prima volta, pur non essendo parte dell’Unione europea) e ci permette quindi di vedere da vicino i numeri degli animali impiegati a scopo di ricerca in Italia.
In generale, guardando alle cifre del 2018 e confrontandole con quelle degli anni precedenti, da noi il numero di animali impiegati per la prima volta a scopi scientifici è in diminuzione: si parla infatti di 553 208 individui, che rappresentano un calo del 3,76% se confrontati con l’anno precedente.
Andando a guardare le specie impiegate, si osserva che topi e ratti rappresentano la stragrande maggioranza. È da notare che il totale degli animali riportato nel seguente grafico non corrisponde a quello indicato nel precedente: la ragione, come avverte il report all’inizio, è che molti Stati (Italia compresa), non hanno distinto in queste statistiche gli animali impiegati per la creazione di linee geneticamente modificati, che sono state comprese nel totale, il quale a sua volta risulta quindi più alto rispetto a quello del totale degli animali impiegati per la prima volta a scopi scientifici.
L’impiego a scopo regolatorio è in Italia il principale (37,36% degli impieghi), seguito dalla ricerca: il report nota che nel corso degli anni si è stabilito un trend di decrescita per la ricerca di base, e di crescita per la ricerca applicata. Interessante osservare che in Francia, invece, gli scopi principali sono di ricerca di base e applicata (rispettivamente il 36,44% e il 30, 19%), e le percentuali sono ancora più alte in Germania, dove l’impiego degli animali nella ricerca di base rappresenta il 47,5% degli usi e quella applicata il 18,81%.
Vogliamo chiudere questa breve analisi con un confronto nei dati sul riutilizzo degli animali impiegati a scopi scientifici. Il principio delle 3 R adottato dall’Unione europea, infatti, prevede la riduzione degli individui usati, obiettivo che si può raggiungere – tra le altre cose – proprio con il re-impiego del singolo animale, se ciò non ne compromette il benessere.
In tal senso, si osserva che in Italia i riutilizzi sono meno dell’1% del totale degli usi; percentuali più alte si osservano in Francia e in Germania (poco più del 2% degli usi totali).
«La riduzione del numero di animali utilizzati in Italia sembra essere totalmente a carico della ricerca di base che, come sappiamo, è quella che necessità più fondi perché non dà risultati immediatamente utilizzabili ma è il volano della crescita futura», commenta Giuliano Grignaschi, direttore di Research4Life. «Come dimostrano anche questi dati, lo hanno capito molto bene gli altri Paesi europei, che investono molto in questo ambito e quindi consentono di portare avanti le attività sul loro territorio. Ancora una volta le cause e gli effetti del ben noto fenomeno della fuga dei cervelli sono sotto i nostri occhi: meno ricerca di base significa rinunciare a essere all’avanguardia».
Il tema del riutilizzo è da sempre molto discusso nell’ambito degli esperti di benessere animale: è più corretto indurre maggiore sofferenza in un singolo individuo oppure suddividere la quantità tra due individui diversi? Gli enti italiani e gli organismi preposti alla autorizzazione di queste attività sembrano propendere per la seconda ipotesi: ridurre al minimo la sofferenza indotta al singolo soggetto anche a costo di aumentare il numero di soggetti. «In questo ambito, sarebbe molto interessante avere una valutazione anche del numero di animali recuperati a fine sperimentazione; questo potrebbe essere un buon indice di quanto poco invasive siano le procedure eseguite», conclude Grignaschi.