Oggi facciamo un esperimento. Ogni tanto la pagina riceve richieste di informazioni su argomenti collegati alla sperimentazione animale: dalle attività di “Ricercare” all’uso del gatto per l’impianto cocleare, dai macachi di Caminiti alle “ricerche” di Harlow, fino ai cani impiegati per la ricerca finanziata da Telethon sulla distrofia muscolare.
Stavolta è toccato alla sindrome di Rett: cos’è, a cosa serve usare animali, perché sono necessari? Orietta Mariotti, una follower della pagina (notare: vegetariana ed animalista pure) con una bimba Rett, mi ha raccontato delle cose su sua figlia e sulle sue speranze, ed ho deciso di un fare un piccolo dossier, semplice ma completo, sulla malattia, la ricerca ed il relativo uso che si fa degli animali nel suo ambito. Serve per capire il modo di procedere in generale, non solo in questo caso: perché è indispensabile usare animali in ricerca, perché in vitro in certi casi non può funzionare, come si usano, che risultati si raggiungono solo con il loro uso.
Quello che segue è non è una lettura da social, ma ve lo leggerete lo stesso: perché su questa pagina c’è gente più in gamba della media, perché è utilissima a capire non solo la malattia ma anche come vengono impiegati gli animali in queste ricerche, e perché, sia che siate pro che siete contro, dovete sapere di cosa state parlando. E anche, un po’, per darvi materiale per meditare.
La sindrome di Rett è una malattia genetica non ereditaria, che colpisce principalmente il sesso femminile; è causata da una mutazione che si verifica sul gene MECP2, sito sul cromosoma X. Interessa il sistema nervoso, alterando la funzionalità delle sinapsi (le sinapsi sono i punti in cui le cellule nervose sono congiunte, in un’immensa rete, che le mette in comunicazione tra loro e passa i segnali di quello che succede “fuori”, dalla periferia alla centrale operativa: il cervello; e naturalmente trasmette gli ordini in partenza dal cervello stesso). All’inizio, per i primi 6-36 mesi di vita, le bambine sembrano avere uno sviluppo normale, poi gradualmente perdono la capacità di camminare, di parlare, di usare le mani, ed in generale c’è un pesante ritardo nello sviluppo cognitivo; è estremamente invalidante. Ad oggi non c’è terapia, anche se si stanno facendo passi avanti. La ricerca fa largo uso di animali (muridi) che servono per capire cosa accade a livello dei tessuti cerebrali del malato, cosa che evidentemente non è possibile fare su di un paziente umano vivo. E naturalmente per trovare una terapia.
Per comprendere se la malattia fosse neurodegenerativa (ovvero se le cellule nervose si danneggiassero irreversibilmente) o vi fosse una speranza di cura, sono stati generati topi con il gene MeCP2 (lo stesso che genera la sindrome nell’uomo) silenziato, ma con la possibilità di essere riattivato attraverso la somministrazione di un enzima batterico. Si tratta di un artificio di ingegneria genetica, quindi non applicabile all’uomo, dato che si “guasta” deliberatamente il gene: serve a creare la malattia a scopo di studio. Così si è dimostrato come nel topo la malattia sia completamente reversibile e si possa intervenire anche in un animale adulto, ottenendo un recupero completo.
Si è visto come gli animali, prima della riattivazione del gene fossero immobili, epilettici, con grossi problemi respiratori e di coordinamento dei propri movimenti; dopo la cura, invece correvano per la gabbia ed erano praticamente indistinguibili da animali che avevano sempre avuto il gene funzionante. Inoltre, nei topi nei quali non si era ancora manifestata la patologia, l’enzima preveniva completamente la comparsa dei sintomi, e l’attivazione di MeCP2 più tardiva, nei topi già sintomatici, arrestava il loro progredire ed invertiva il decorso, suggerendo quindi che la sindrome di Rett sia reversibile con terapia genica, in qualsiasi fase della vita del malato.
Le strade che vengono battute per trovare una cura per la sindrome di Rett, che rappresenta la prima causa al mondo di grave disabilità intellettuale femminile, sono diverse. Tra queste spicca certamente la terapia genica, ovvero la possibilità di somministrare, ai neuroni portanti il gene non funzionante, una copia del gene normale. Due sono i principali problemi che la ricerca deve affrontare:
1) ottenere dei vettori virali* che abbiano la capacità di raggiungere una gran parte delle cellule nervose (il tessuto nervoso è difficilmente accessibile);
2) controllare il numero di vettori virali, e quindi di geni curativi, che vengono somministrati alle cellule. E’ infatti noto che se la mancanza di un gene MECP2 funzionante causa, generalmente nel sesso femminile, la sindrome di Rett, la presenza di due copie dello stesso gene MECP2, perfettamente funzionanti, è responsabile di un’altrettanto grave patologia denominata sindrome da duplicazione di MECP2, che in genere colpisce i maschi.
Queste due criticità appaiono per il momento in conflitto tra di loro. Infatti, per raggiungere più neuroni con il virus terapeutico, si dovrebbe somministrare moltissimo virus; questo porterebbe però probabilmente tante cellule nervose ad ammalarsi, per avere ricevuto più copie del gene MECP2.
La seconda strada principalmente battuta dalla ricerca è quella dell’approccio terapeutico, per via farmacologica. Anche in questo caso, come sempre, i farmaci devono essere dapprima testati su cavie, per i motivi che ormai sapete a memoria (vero?). Se la fase preclinica ha successo, si passa a quella clinica: oggi sono in corso alcuni trial clinici derivati da questi studi e volti, per esempio, a comprendere i benefici del trattamento delle bambine con IGF1 (un fattore di crescita neuronale) o con dei farmaci agenti sulle vie di sintesi del colesterolo o capaci forse di normalizzare i gravi problemi respiratori.
*Di come funzionano i vettori virali ne abbiamo parlato già a proposito di OGM e di ADA-SCID, in caso vi fosse sfuggito: la prima è una nota, il secondo è uno stato dell’album “animali e ricerca”.
Tutte le info sono state prese sul sito di ProRett, una onlus fondata dai genitori di bambine Rett, della quale Orietta fa parte, che finanzia molti progetti di ricerca in Italia e in USA, con lo scopo di meglio comprendere la malattia o di testare nuovi farmaci ed approcci terapeutici.
Qui ci sono i risultati dei finanziamenti recenti di ProRett. Consiglio di fare un giro anche qui, una pagina della ProRett che contiene diversi video; da bravi, guardatene almeno qualcuno, rendono infinitamente meglio del testo.
Al solito, queste cose non servono chi è già convinto che certo, cosa vuoi che siano un po’ di sorci, ma per tutti quelli che si domandano se è giusto. Sinceramente, preferisco i secondi: il dubbio allena l’etica, le certezze no. Sacrificare degli esseri viventi non significa per niente farlo con indifferenza. Chi è indifferente anzi, un po’ fa paura. Come sempre, esposizione neutra, decisione a voi.
Grazie a Nicoletta Landsberger per la disponibilità e la pazienza con cui si è fatta bombardare di domande stupide, e per la revisione.
E grazie ad Orietta Mariotti. A proposito: come i follower fedeli sanno, JJ è pochissimo incline a prendere la gente per lo stomaco con l’orrore, o per il cuore con stati strappalacrime; non perché è cinica (non sarebbe animalista) ma perché l’arma evolutiva che abbiamo in dotazione, quella relativamente alla quale siamo superiori agli altri, quella che ci consente di risolvere i problemi come questo, per la nostra e le altre specie animali, è la neocorteccia: è quella, a consentire opinioni stabili e ragionate. Ma girando per il sito di ProRett, ho trovato un racconto di Orietta, ed ho deciso con lei di inserirne una parte nel post: la sindrome di Rett per voi è una serie di parole, frasi, informazioni e dati, ma per alcuni è … più tangibile. Va bene essere anemozionali, ma oltre un certo limite diventa codardia.
“Veder crescere la propria bambina, raggiungere obbiettivi come camminare, usare le mani e parlare è emozionante. Poi, pian piano non fa più tutte queste cose, lentamente viene portata via. Ma non via del tutto perché viene sepolta e intrappolata in un corpo con un cervello che non ne vuole sapere di mandare i segnali giusti. Appena diagnosticata, lei è ancora li ma sai già che sarà per poco, perché nel frattempo ti sei documentata (maledetto internet). Mia figlia ha smesso di parlare, di camminare, di usare le mani e adesso dipende da me per fare qualsiasi cosa, anche la più banale, come mangiare. Alessia c’è, ma è in trappola. Non è la suggestione di una mamma, c’è, laggiù, ma non può, non riesce, ad uscire di là, tutti i mezzi che avrebbe per farlo sono non funzionanti. Questi ultimi 11 anni ormai sono persi per mia figlia, nulla potrà più darle l’infanzia che avevamo sognato per lei. Ma ha ancora tutta una vita davanti ed è nostra intenzione renderla il meno dolorosa e più serena possibile. La risposta è in uno dei centinaia di laboratori del mondo, magari proprio in uno dei nostri laboratori dell’Università di Milano o del San Raffaele. Dobbiamo trovarla.”
I Rett nel mondo sono migliaia, ed ogni anno ne vengono diagnosticati di nuovi. Non dirò quello che spero vivamente stiate già pensando tutti. La solita domanda: è lecito? La risposta è personale; accetterò senza discutere “amen, capita, non è accettabile per me sacrificare dei topi per guarire delle bambine”, accetterò meno “si possono usare pedofili/tecniche alternative/colture in vitro”, salvo spiegazione di come sarebbe possibile ottenere dei risultati con i sistemi addotti. Neanche “si devono trovare altri sistemi!” salvo che chi lo dice possa ottenere l’intervento della fata Morgana e/o di mago Zurlì. Nel primo caso, presumo coerenza, quindi che l’affermazione valga per qualsiasi malattia, non solo per la sindrome di Rett: dal diabete alle varie patologie degenerative fino al cancro, che possono capitare a chiunque. Altrimenti diventa, che sia cosciente o no, un “tanto non mi riguarda”.