Le tesi di laurea magistrale di Elena Ferretti e Giulia Rigamonti sono state premiate dalla Regione Emilia-Romagna per il loro valore in ottica 3R, e in particolare per il refinement: il loro lavoro, infatti, consente di studiare complessi processi neurali presenti solo nei primati, lasciando però la scimmia libera di muoversi, laddove il setup tradizionale richiede che sia ferma su una sedia. Due studi, quindi, che da una parte aiutano a rispettare l’etologia dell’animale e, dall’altra, forniscono un contribuito prezioso per capire come indagare l’attività neurale in condizioni naturali
Raccogliere informazioni dettagliate su processi complessi come quelli neurali e, allo stesso tempo, far sì che la procedura avvenga senza che l’animale debba subire lo stress di rimanere bloccato su una sedia. Ma, anzi, consentendogli di fare ciò che gli viene più naturale – nel caso di un macaco, correre, arrampicarsi, giocare, mangiare.
È stato questo l’obiettivo di Elena Ferretti e Giulia Rigamonti, laureatesi all’Università di Parma con due tesi poi premiate dalla Regione Emilia-Romagna proprio per il refinement della sperimentazione animale che offre il loro lavoro. Le loro ricerche, coordinate da Luca Bonini, professore di Psicobiologia e Psicologia fisiologica, sono state svolte nell’ambito di un progetto finanziato dallo European Research Council dedicato allo studio dei correlati neurali del movimento, ossia come il cervello controlla i comportamenti motori in condizioni prive di restrizioni.
Studiare un individuo che si muove
«I nostri progetti prevedevano di confrontare l’attività neurale durante lo svolgimento di attività da parte dell’animale in una condizione in sedia e in una, invece, in libertà di movimento», spiega Elena Ferretti, oggi dottoranda presso il laboratorio di Luca Bonini. «Questo ci permetteva di valutare se e come l’attività neurale cambia nei due diversi contesti, o se si possono ottenere risposte simili quando anche il comportamento è simile. L’obiettivo ultimo è quello di avvicinarci sempre più a setup sperimentali in cui gli animali (nel nostro caso, macachi rhesus) sono liberi di muoversi, così da avere una condizione più simile a quella naturale». La condizione sperimentale tradizionale, infatti, prevede che l’animale sia fermo (attraverso un dispositivo fissato in maniera chirurgica al cranio e poi alla sedia) durante lo svolgimento dei diversi compiti, durante i quali i ricercatori possono monitorare l’attività dell’encefalo: condizione, però, che consente solo pochi movimenti semplici, riguardanti principalmente gli arti superiori o la bocca, e che quindi rispecchiano poco la condizione naturale.
«Se da una parte questo tipo di condizione sperimentale consente di eseguire poi esperimenti di controllo, perché si tratta di attività replicabili e riproducibili, dall’altra il comportamento studiato finisce per essere un automatismo, lontano da quello etologicamente naturale per la specie», spiega infatti Luca Bonini. «Per capire meglio la ragione di questo tipo di studi, bisogna considerare che da circa 15 anni è diventato possibile utilizzare il segnale elettrico da aree del cervello con funzioni motorie anche in pazienti umani, in particolare persone che hanno subito una lesione al midollo spinale, che impedisce loro il movimento. In queste persone è interrotta la via di comunicazione tra l’encefalo e il resto del corpo; il cervello, tuttavia, è ancora perfettamente sano e in grado di produrre attività motoria. L’attività elettrica riferita al comando di movimento emesso dai neuroni può quindi essere registrata, decodificata dal computer e impiegata per far muovere non direttamente il braccio della persona ma, per esempio un esoscheletro o un braccio robotico. Ma per arrivare, un domani, ad applicare queste metodologie per far recuperare capacità di movimento direttamente ai pazienti in condizioni normali, abbiamo bisogno di capire come il cervello controllo il movimento del corpo mentre questo si muove liberamente».
Dalla sedia al movimento
Ecco dunque che gli studi di Ferretti e Rigamonti iniziano a rispondere a questa domanda, cercando di raccogliere le informazioni necessarie ai futuri studi su individui in movimento. Grazie a elettrodi impiantati chirurgicamente nell’encefalo dell’animale, in particolare nell’area della corteccia premotoria ventrale (deputata non solo al controllo del movimento ma anche ad attività più complesse, come la programmazione dell’azione), che registrano il segnale neurale e i cui dati possono essere scaricati da SD card (le stesse, per intenderci, impiegate nei telefoni cellulari), è stato possibile indagare anche l’attività neurale di individui in movimento. I macachi, infatti, potevano muoversi in un ambiente di circa otto metri cubi, dotato di corde, appigli e altre strutture posizionate apposta per stimolare determinati comportamenti. «Elena e io abbiamo condotto insieme la parte di acquisizione dei dati, ma l’approccio di analisi era differente. Il mio lavoro, infatti, ha seguito un approccio classico nel quale s’indagava l’attività dei neuroni quando l’animale mette in atto un determinato comportamento, come mangiare un pezzo di cibo o arrampicarsi», spiega Giulia Rigamonti.
«Nel mio lavoro, invece, si testava l’approccio complementare, indagando a posteriori come ai picchi di attività neurale corrispondesse un determinato comportamento», aggiunge Ferretti.
«Le loro due tesi rappresentano approcci diversi allo stesso argomento perché è particolarmente difficile trovare il modo di capire come il cervello controlla il movimento quando vengono a mancare i controlli tipici del laboratorio e l’animale può muoversi liberamente – ma allo stesso tempo è una sfida fondamentale perché, se non sappiamo questo, non potremo mai pretendere di decodificare il segnale di un paziente che si può muovere liberamente, per consentirgli di farlo anche quando il suo sistema motorio non vi riesce più per via di una lesione», continua Bonini. «Affrontare la complessità del comportamento naturale diventa dunque tassativo per rispristinare ciò che non funziona più. Questo ha la duplice valenza di essere sia scientificamente utile sia impattante in senso positivo sul benessere degli animali, che possono essere studiati mentre fanno, seppur in uno stabulario, ciò che per loro è naturale».
Verso la condizione naturale
«Il nostro lavoro ha mostrato che le risposte neurali sono più o meno confrontabili quando l’animale è fermo e quando in movimento. Tuttavia, l’animale in movimento presenta risposte molto più variabili, quindi probabilmente questi neuroni controllano altre risposte neurali che però non si osservano nella scimmia in condizione di restrizione del movimento», spiega Ferretti. «Inoltre, proprio grazie a questo nuovo setup, abbiamo potuto iniziare a studiare i neuroni per comportamenti che non possono proprio essere messi in atto dall’animale sulla sedia». E, aggiungono le scienziate, questo nuovo approccio consente d’indagare anche comportamenti che nel setup tradizionale non potrebbero essere studiati, proprio perché le analisi classiche come la risonanza magnetica richiedono una completa immobilità. In questo modo diventa possibile studiare le basi cerebrali di comportamenti anche apparentemente banali, come lo sbadiglio, che in realtà hanno però una grande importanza nel mondo animale perché svolgono un ruolo di comunicazione e sincronizzazione tra gli individui, importante per gli animali sociali come i primati perché aiuta a coordinarne le attività.
«In sintesi, stiamo cercando di creare un approccio neuroetologico, cioè che serva per capire con le tecniche dell’etologia quelle che sono le cause del comportamento, e quindi come il cervello lo controlla», conclude Bonini. «E questo significa anche rinunciare sempre più all’addestramento degli animali (che nel setup tradizionale imparano per esempio a svolgere determinati compiti al computer) per lavorare su un comportamento che sia il più possibile spontaneo. Inoltre, lavoreremo anche su individui in gruppo, e non più solo isolati».