Guidato dall’Università di Milano, il progetto Fish AI ha sviluppato un modello in vitro dell’intestino di trota che permette di testare mangimi sostenibili riducendo l’uso di animali negli esperimenti, promuovendo la sostenibilità ambientale e il rispetto delle 3R
E se un modello in vitro aiutasse non solo a ridurre l’uso di animali ma anche una maggior sostenibilità ambientale? È proprio questo l’obiettivo del progetto Fish AI, dove AI non sta per artificial intelligence bensì per artificial intestine.
Durato quattro anni e in chiusura al termine del 2024, il progetto è guidato dall’Università di Milano e mira, appunto, allo sviluppo di un intestino di pesce artificiale. Più precisamente, il modello realizzato è quello dell’intestino di trota iridea, una specie di elevato valore commerciale che, in Italia, è anche la più allevata. Ci siamo fatti raccontare il lavoro e i suoi obiettivi dal gruppo di ricerca guidato da Fulvio Gandolfi, veterinario e professore all’Università di Milano.
Tutela animale, tutela ambientale
Sempre più studi evidenziano l’importanza di ridurre il consumo di carne, pesci compresi, per limitare il pesante impatto ambientale degli allevamenti e della pesca. Intanto, però, sono ormai dieci anni che la quantità di pesce allevato ha superato quello pescato e la richiesta continua ad aumentare. «L’acquacultura pone seri problemi di sostenibilità per diverse ragioni. Tra queste, una delle principali è che le specie più pregiate (e quelle più allevate) sono carnivore: trote, salmoni, orate, cernie eccetera si nutrono di altri pesci, per cui il loro allevamento porta a instaurare un circolo vizioso di allevamento di pesci per nutrire quelli allevati», spiega Gandolfi. «Per ridurre questo impatto, una possibilità è trovare fonti di proteine differenti per i pesci d’allevamento: fonti vegetali, per esempio, oppure alimenti di scarto, di alto valore biologico ma non commerciale, che possano essere utilizzati in ottica di economia circolare».
Come valutare questi mangimi, in termini di sicurezza e valori nutrizionali? Come ogni altro mangime, infatti, anche quello destinato ai pesci d’allevamento dev’essere testato prima di poter essere immesso in commercio. E i test richiedono l’uso di animali. Peraltro, l’uso di pesci a fini scientifici è andato già significativamente aumentando nel corso degli anni, toccando un picco nel 2021, e, come avevamo riportato analizzando le statistiche europee, sono ormai al secondo posto degli animali più utilizzati dopo i topi. Le specie più coinvolte sono ovviamente anche quelle di maggior interesse commerciale: salmoni, trote, salmerini, temoli e spigole.
È qui che entra in gioco il progetto Fish AI. «L’obiettivo del progetto era sviluppare un intestino artificiale, una cultura cellulare che permettesse di testare le nuove e più sostenibili diete in modo efficace e affidabile. Più precisamente, messo a punto il sistema in vitro, vogliamo capire quanto e quali risultati sono paragonabili a quelli che si osservano in vivo, cioè sugli animali, testando le stesse diete nei due modelli. Questo ci permette di valutare la qualità dei modelli in vitro», spiega ancora Gandolfi.
Un intestino di trota in vitro
«Già diversi anni fa avevamo lavorato allo sviluppo di modelli in vitro, riferiti ad altre specie, che, usando metodiche adeguate che rispecchiano l’organizzazione del tessuto in vivo, risultassero il più predittivi possibile rispetto a ciò che poi si osserva negli animali», racconta Tiziana Brevini, professoressa all’Università di Milano e membro del gruppo di ricerca che ha lavorato nel progetto Fish AI. «Questa esperienza è stata preziosa: le competenze raccolte all’epoca ci hanno permesso, con questo progetto, di trasformare quella che era ricerca di base in ricerca applicata, per selezionare le diete partendo da modelli in vitro che permettessero una riduzione dell’uso di animali in ottica 3R».
Un lavoro tutt’altro che banale, soprattutto se si considera che la trota, pur essendo un modello importante per tutti i salmonidi (famiglia di cui fanno parte anche salmoni e temoli), è poco caratterizzata dal punto di vista cellulare. Il primo passo per il gruppo di ricerca è stato quindi quello di caratterizzare, dal punto di vista cellulare, la mucosa intestinale di questa specie.
«Rispetto a quello di un mammifero, l’intestino della trota è piuttosto semplice dal punto di vista organizzativo: è costituito da una porzione prossimale e da una distale, con ruoli e caratteristiche differenti in termini, per esempio, di tasso di proliferazione, capacità di assorbimento e risposta immunitaria. Su queste basi, abbiamo derivato due linee cellulari staminali stabili, cioè delle popolazioni di cellule coltivate in laboratorio in grado di di crescere e dividersi indefinitamente in condizioni controllate, mantenendo le loro caratteristiche specifiche», spiega Nicole Verdile, assegnista all’Università di Milano.
Le due linee cellulari, ciascuna rappresentativa di una porzione dell’intestino di trota, sono poi state indotte a differenziarsi in modo da valutarne la funzionalità. Questo passaggio è stato compiuto in due modi, spiega Verdile. Uno, più semplice, nel quale le cellule sono inserite in un sistema formato da due camere che simulano il lume intestinale (dove le cellule sono quindi esposte ai nutrienti) e il sistema vascolare (per valutare le capacità di assorbimento). L’altro, più complesso, nel quale è stato realizzato anche il supporto dello stroma, cioè il tessuto connettivo che supporta le altre componenti cellulari. «Questo è stato reso possibile dall’isolamento di una terza linea cellulare, in grado di sintetizzare il collagene che forma gran parte dello stroma».
Sperimentare in parallelo
Il sistema realizzato non va confuso con un organoide. Un organoide intestinale, infatti, avrebbe il lume intestinale rivolto all’interno dell’organo, rendendo molto complessa la valutazione funzionale dell’assorbimento e degli effetti dei nutrienti. «Inoltre, noi volevamo creare un sistema che permettesse il trasferimento tecnologico e la raccolta di dati robusti e ripetibili: gli organoidi sono però culture primarie, cioè derivate direttamente da organi e tessuti. Questo implica che ognuno sia un po’ diverso dagli altri, e ciò può influenzare i risultati sperimentali in un modo che per noi non sarebbe stato funzionale», spiega Gandolfi.
Allo scopo di testare le nuove diete per i pesci, infatti, è fondamentale che le risposte siano tanto significative quanto affidabili. I test portati avanti dal gruppo di ricerca, basati sulla somministrazione della dieta sia agli animali sia al modello in vitro (e con i relativi gruppi di controllo, che ricevono una dieta standard) mirano proprio a valutare le differenze tra la risposta dell’animale e quella della cultura cellulare.
«Questi dati aiutano intanto a stimare le differenze che possiamo attenderci. Per le diverse diete testate, dovevamo valutare vari aspetti, quali per esempio la capacità di accrescimento corporeo, la digeribilità, vari parametri riferiti al benessere intestinale… I risultati raccolti finora hanno mostrato buone corrispondenze tra quanto avviene in vivo e in vitro; abbiamo anche osservato come le due linee cellulari, rappresentanti l’intestino prossimale e quello distale, danno risultati differenti sui diversi aspetti analizzati, rispecchiando quanto avviene nell’animale», continua Gandolfi.
Un lavoro continuo di confronto, insomma, che permetta di stabilire in modo accurato la capacità predittiva del modello in vitro per potere, il prima possibile, iniziare a usarlo nella pratica dell’acquacultura limitando il numero di pesci necessari per i test sperimentali. «La nostra speranza, inoltre, è anche che questo modello, nella sua impostazione, possa un giorno trovare un impiego trasversale anche per altre specie e, non da ultimo, che possa essere impiegato anche nella medicina di precisione, per esempio nello studio di disturbi come la malattia di Crohn, per i quali non abbiamo oggi modelli in vitro», conclude il team di ricerca.