Sui media e sul web sono spesso riportare alte percentuali di fallimento dei farmaci che, testati negli animali, non risultano poi efficaci o sicuri negli umani. È segno che la sperimentazione animale non funziona? No, e qui spieghiamo il perché partendo da una recente meta-analisi che aggiorna le stime dei farmaci approvati per l’immissione in commercio
Una recente meta-analisi pubblicata su PLOS Biology stima che solo il 5% circa dei farmaci testati sugli animali sia poi approvato dagli enti regolatori e possa entrare in commercio (e dunque nella pratica clinica). Di primo acchito, la percentuale sembra molto bassa. Ma per capirne il reale significato è importante contestualizzarla e, soprattutto, capire bene a quali processi fa riferimento. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
Il nuovo studio
La nuova analisi di Benjamin Ineichen, del Centre for Reproducible Science dell’Università di Zurigo, e dei suoi colleghi indaga 122 revisioni sistematiche, cioè quegli studi che valutano e sintetizzano i risultati degli studi sperimentali in un determinato ambito. Complessivamente, queste revisioni combinavano i risultati di 367 studi dedicati a terapie per 54 diverse patologie umane.
Il gruppo di ricerca ha condotto una serie di analisi e valutazioni statistiche per stabilire quante delle terapie proposte arrivassero innanzitutto ai primi studi clinici sugli essere umani; quindi agli studi ampi, e nello specifico ai trial clinici controllati randomizzati (cioè nei quali i partecipanti sono assegnati, in modo casuale, a un gruppo sperimentale o di controllo). Infine, quante delle terapie inizialmente proposte fossero approvate dall’ente regolatorio per l’immissione in commercio. I ricercatori hanno stimato anche il tempo che necessario per ciascuno di questi passaggi.
Inoltre, basandosi su metodi statistici, il gruppo di ricerca ha proposto una stima della concordanza tra i risultati degli studi condotti sugli animali con quelli degli studi sugli esseri umani.
I risultati ottenuti sulla base di questa meta-analisi indicano che circa la metà delle terapie testate sugli animali arriva ai primi studi sugli esseri umani (e questa fase richiede circa 5 anni); che il 40% arriva a essere testata in trial controllati randomizzati (in 7 anni) e che il 5% è poi approvato per l’immissione in commercio (in 10 anni). Per quanto riguarda la concordanza tra i risultati ottenuti negli umani con quelli ottenuti negli animali, il gruppo di ricerca stima che ben l’86% dei risultati positivi siano concordi.
«Concludiamo che, a differenza delle asserzioni diffuse, il tasso di successo per la translazione [di terapie] dall’animale all’umano è più alto di quanto riportato in precedenza», scrivono gli autori. «Tuttavia, il basso tasso di approvazione finale indica che ci possano essere dei potenziali limiti sia nel design degli studi con animali, sia nei trial clinici iniziali».
Verso l’approvazione dei farmaci: la fase preclinica
Per capire davvero i risultati di questo studio è indispensabile avere ben chiaro il percorso di un farmaco dal suo sviluppo all’immissione nel mercato. È un percorso che non inizia negli animali, bensì con la selezione delle molecole che possono candidarsi per la terapia, che avviene in silico, cioè con studi computazionali. Da questa primissima fase si passa ai test in vitro – quei test condotti su culture di tessuti e cellule ed eventualmente anche su sistemi più avanzati e complessi, come gli organoidi, per valutazione delle sue caratteristiche e per avere una primissima indicazione dei suoi effetti in termini di efficacia e tossicità.
Solo in un secondo momento i test passano agli animali. Per la precisione, la Direttiva 2001/83/EC dell’Unione europea prevede che un (potenziale) nuovo farmaco sia testato prima su un roditore, di norma topi e ratti, e poi su un mammifero diverso dal roditore. Perché due specie? La ragione è che ogni specie può replicare più o meno bene ciò che avviene in noi umani a seconda di ciò che viene testato e dell’organo (o degli organi) bersaglio. L’uso di due specie diverse limita questa incertezza.
I test sugli animali consentono di iniziare a raccogliere informazioni su come il potenziale farmaco si distribuisce nell’organismo, come viene assorbito e metabolizzato, come viene espulso – insomma i dati sulla farmacocinetica, oltre che quelli sulla tossicologia, cioè sulla sua effettiva sicurezza. Infatti, una molecola pensata per trattare, per esempio, un disturbo del cuore potrebbe poi, con i processi del metabolismo, andare a danneggiare organi come i reni o il fegato, e questo effetto non è ancora verificabile con certezza in culture cellulari o altri metodi in vitro, in silico o in chimico.
Verso l’approvazione dei farmaci: la fase clinica
Solo se un farmaco si dimostra sicuro negli animali può arrivare alla fase di sperimentazione clinica, quella volta a verificarne sicurezza ed efficacia anche nella nostra specie. Inizia quindi una vera e propria fase di sperimentazione nell’essere umano, quella dei trial clinici, che prevedono tre diverse fasi:
- Fase 1, fornisce una prima valutazione della tollerabilità e della sicurezza del farmaco. Si esegue su un numero limitato di volontari sani (e per i quali è documentata l’assenza di predisposizione a specifiche malattie), oppure su persone con la malattia per la quale il farmaco è stato sviluppato, se si tratta di patologie gravi (quindi non, per esempio, un analgesico sviluppato per dolori lievi)
- Fase 2, inizia a indagare la capacità terapeutica del farmaco, intesa come la capacità di trattare la malattia per cui è stato sviluppato. Inoltre, permette di iniziare a stabilire i dosaggi idonei e approfondire la valutazione di rischi e benefici. Si conduce su un campione relativamente piccolo di persone con la malattia (sane se si tratta di un farmaco usato per la prevenzione). In questa fase di solito i volontari sono divisi in gruppi che permettono per esempio il confronto con un farmaco già in uso, o con diverse dosi del farmaco. Quando eticamente accettabile – quindi non nel caso di farmaci salvavita – il confronto può avvenire anche con un placebo.
- Fase 3, serve a determinare l’efficacia del farmaco, anche valutandone i benefici rispetto a eventuali altri farmaci già disponibili. È, in un certo senso, la fase “finale” di valutazione, perché se dà buoni risultati può essere sottoposto al processo di approvazione da parte dell’ente regolatorio (per l’Unione europea, la European Medicine Agency). In questa fase vi è particolare attenzione per gli eventuali effetti avversi (in termini di insorgenza, frequenza e gravità).
I trial di fase 3 si conducono su un campione significativamente più ampio di volontari malati e si basa su studi controllato randomizzati, cioè nei quali i volontari sono assegnati in modo casuale al gruppo sperimentale (terapia con il nuovo farmaco) o di controllo (un farmaco già in uso e che rappresenta la terapia standard).
Naturalmente, solo un farmaco che passa i trial di fase 1 sarà testato con trial di fase 2, e lo stesso vale per le fasi successive.
Inoltre, a queste tre fasi di sperimentazione si aggiunge la cosiddetta fase 4, cioè la sorveglianza post-marketing. Dopo che un farmaco è stato approvato e immesso in commercio, cioè, si raccolgono tutte le informazioni derivate dall’uso esteso, da parte di una popolazione molto ampia. È questa fase che permette di raccogliere informazioni, per esempio, su effetti avversi molto rari, che possono non comparire nei test sui campioni più limitati delle fasi 2 e 3.
Un processo di selezione
Conoscendo questo lungo percorso, è possibile capire meglio i risultati dello studio della meta-analisi di Ineichen. Due sono gli elementi che richiedono una riflessione: il primo è l’elevata coerenza tra i risultati ottenuti negli studi sugli animali e quelli umani; il secondo è che, nonostante questa coerenza e la percentuale anche più elevata rispetto a stime precedenti dei farmaci che arrivano ai trial più avanzati, solo una piccola frazione di questi è poi approvata dagli enti regolatori. Perché? Qual è la ragione per la quale solo pochi farmaci sono poi approvati per l’immissione in commercio?
Una possibilità, secondo gli autori, è che i criteri molto selettivi per i trial di fase avanzate e l’approvazione per il commercio lascino indietro molti farmaci. Una seconda possibilità è che vi siano dei limiti nei disegni sperimentali delle fasi precliniche e delle prime fasi cliniche, che ne inficiano la validità. Questa linea di ragionamento può includere anche il cosiddetto efficency-effectiveness gap, cioè i differenti risultati che si ottengono quando i pazienti sono trattati in condizioni ideali e controllate rispetto a quelle che si hanno poi nella realtà.
«Gli autori propendono per questa seconda spiegazione e io sono d’accordo con questa interpretazione. La sperimentazione rimane necessaria perché la ricerca biomedica possa andare avanti e sviluppare terapie per il trattamento di malattie nostre e degli animali. Ma, di sicuro, dobbiamo cercare di migliorare i disegni sperimentali, sia nella fasi precliniche sia nelle cliniche», ha commentato sul sito della European Animal Research Association (EARA) Lluis Montolliu, ricercatore che si occupa di malattie rare del Centro Nacional de Biotecnología spagnolo.
Anche alla luce di queste considerazioni, è importante ricordare che il lungo percorso che parte dai test in vitro, arriva ai test sugli animali e infine a quelli sugli esseri umani rappresenta un percorso di selezione nel quale si scartano via via le molecole che dimostrano di non essere efficaci, cioè non danno benefici nel trattamento della patologia per la quale sono stati sviluppati, e/o causano effetti avversi rendendo sfavorevole la valutazione rischi-benefici (in altre parole, che rischiano di creare più danni di quelli che sono i benefici per la persona). È un processo altamente selettivo e prevede che da una fase all’altra vi siano farmaci scartati: significa che il processo di selezione funziona, limitando il numero di persone (ma anche animali, se si considerano le prima fasi precliniche in vitro) che sperimentano un farmaco non sicuro e/o poco efficace.
Della sperimentazione animale non possiamo oggi fare a meno: solo un organismo complesso può permetterci di capire davvero ciò che avviene alla somministrazione del farmaco. Intanto, comunque, la ricerca sui metodi alternativi avanza, consentendoci di limitare sempre più l’uso degli animali e rendendo più efficaci le prime selezioni di potenziali farmaci. E, in ottica 3R, il mondo stesso della ricerca analizza potenziali limiti della sperimentazione, così da mettere in luce le strategie che possono rendere più efficace il processo di sviluppo delle terapie.