Un anno dopo l’intervento, arriva la pubblicazione scientifica che documenta il primo xenotrapianto di fegato: un nuovo, ulteriore passo avanti verso nuove soluzioni ai trapianti d’organo
Lo studio degli xenotrapianti avanza velocemente: dai primi xenotrapianti di rene e cuore su persone dichiarate cerebralmente morte siamo arrivati, in tempi relativamente molto rapidi, a quelli sui pazienti vivi. E da questi primi interventi, finora approvati per uso compassionevole (in assenza, cioè, di altri trattamenti che potessero salvare il paziente), siamo arrivati ai primi trial clinici – notizia proprio degli ultimi mesi. Ora, un nuovo passo avanti: lo xenotrapianto di fegato.
In realtà, la notizia non è nuova: l’intervento era stato eseguito esattamente un anno fa, a marzo 2024, su una persona cerebralmente morta. Ma in questi giorni è stato pubblicato su Nature lo studio che descrive nei dettagli procedura e risultati. È una notizia importante, perché la pubblicazione consente una valutazione scientifica rigorosa dello xenotrapianto: non si tratta più soltanto di un’impresa chirurgica senza precedenti ma di un caso clinico documentato, un passo misurabile lungo il cammino verso l’utilizzo clinico degli organi xenogenici. Ne riportiamo gli elementi principali.
Ci vuole fegato
Gli xenotrapianti, quale che sia l’organo, presentano due difficoltà principali: la compatibilità con una specie differente (e quindi il rischio di rigetto) e la possibile trasmissione di virus. E poi c’è da considerare la complessità dell’organo in questione: i reni, per esempio, hanno un funzionamento molto delicato, in un gioco di bilancio di sostanze da preservare e quelle da eliminare per mantenere l’omeostasi dell’intero organismo.
Tutti aspetti validi per gli xenotrapianti eseguiti finora (di rene, appunto, e di cuore) e forse ancora più validi se si comincia ad aprire anche la possibilità di xenotrapianto del fegato. Il suo trapianto è infatti una sfida notevole: il fegato è una vera e propria centrale biochimica dell’organismo; svolge una vastità di funzioni vitali che comprendono la produzione di proteine necessarie per la coagulazione del sangue, il metabolismo dei farmaci e delle tossine, la regolazione di grassi, zuccheri e ormoni, la produzione di bile per la digestione. Insomma, è un organo tanto complesso quanto vitale: l’insufficienza epatica può portare a un decadimento dell’organismo estremamente rapido. Inoltre, in questo caso di xenotrapianto il rischio di rigetto è particolarmente alto, dal momento che il fegato stesso modula la risposta immunitaria.
Le persone che hanno bisogno di un trapianto di fegato per sopravvivere non sono poche. Anzi, questo è uno degli organi di cui vi è maggior necessità: nella sola Italia, le liste d’attesa del Sistema informativo trapianti riportano a marzo 2025 oltre 1.000 persone in attesa di fegato, rendendolo il secondo organo più necessario dopo il rene.
Insomma, lo xenotrapianto di fegato è tanto complesso quanto importante. Perfino un intervento non curativo ma che faccia da “ponte”, offrendo un margine di tempo prima di un trapianto da un donatore umano, potrebbe rappresentare la salvezza di molti pazienti. La ricerca vi lavora da tempo, con i primi test eseguiti sui primati non umani fin dalla fine degli anni Settanta: la sopravvivenza degli animali, però, è aumentata drasticamente solo a partire dagli anni Duemila, quando sono cominciati i primi esperimenti con maiali geneticamente modificati.
E oggi si arriva all’essere umano.
La pubblicazione sullo xenotrapianto di fegato
Questo primo xenotrapianto di fegato è il primo ad avvenire in un umano. Proprio perché rappresenta uno dei primi tentativi, è stato eseguito su un paziente dichiarato morto cerebralmente, un uomo di cinquant’anni, con il consenso della famiglia. E il primo intervento di questo tipo, è vero, però una forma di precedente c’era già stata: nel gennaio 2024, infatti, alla Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania un altro paziente, sempre cerebralmente morto, era stato collegato a un fegato suino, mantenuto però esterno al corpo. Si trattava di un approccio noto come perfusione extracorporea, nel quale cioè il sangue umano veniva fatto circolare all’interno del fegato di un maiale geneticamente modificato; una possibilità, secondo il team che ha guidato questo approccio, potrebbe essere quella di usarlo un giorno per chi ha subito danni temporanei al fegato o, appunto, per chi è in attesa di trapianto come “ponte” temporaneo. Il collegamento con il fegato suino è durato per tre giorni.
Lo xenotrapianto vero e proprio rappresenta un ulteriore passo avanti. L’intervento è stato condotto il 10 marzo 2024 al Xijing Hospital, a Xi’an, in Cina, ed è durato circa nove ore; a guidarlo è stato un gruppo di medici e ricercatori che lavora da oltre dieci anni sugli xenotrapianti. Prima dell’intervento, la persona ricevente ha ricevuto una terapia immunosoppressiva; il suo fegato fisiologico non è stato rimosso (un approccio detto trapianto ausiliario eterotopico).
Il fegato trapiantato proveniva da un maiale geneticamente modificato (del perché i maiali siano la specie preferita per gli xenotrapianti abbiamo parlato qui). Più precisamente, si trattava di un mini-pig, i maiali più usati in ricerca: le loro dimensioni sono infatti molto inferiori a quelle dei maiali d’allevamento e più compatibili con quelle umane. Nel caso specifico, il maiale donatore era di una razza nota come Bama minipig, una razza nativa cinese. Come negli altri xenotrapianti, il genoma del maiale donatore è geneticamente modificato per limitare il rischio di rigetto; sono anche stati inseriti geni umani per migliorarne la compatibilità. Le modifiche genetiche sono in tutto sei (più o meno la stessa quantità usata nelle altre forme di xenotrapianto, con la notevole eccezione dei reni suini prodotti dall’azienda eGenesis, per i quali è stato approvato un trial clinico negli Stati Uniti, che ne contano ben 69).
Le valutazioni dopo l’intervento
Il team di medici e ricercatori ha monitorato la funzionalità del rene suino trapiantato, la perfusione sanguigna e la risposta infiammatoria e immunitaria del ricevente per dieci giorni. Con risultati positivi: il fegato produceva la bile necessaria per la digestione e albumina suina, una proteina essenziale per la pressione osmotica del sangue (che inoltre permette il trasporto di alcune sostanze molecole a rappresenta una riserva energetica per l’organismo). Anche gli enzimi relativi alla funzionalità epatica hanno mantenuto dei buoni valori. Il gruppo di ricerca segnala però un aumento improvviso e transitorio dell’enzima aspartato transaminasi (AST) che, ipotizza, potrebbe essere stato indotto da un danno alle cellule cardiache.
Inoltre, il flusso sanguigno è rimasto stabile e non sono stati riscontrati segni di rigetto o di infiammazione (la risposta immunitaria del ricevente è rimasta sotto controllo con farmaci imunosoppressori).
Risultati molto buoni, anche se da leggersi con le dovute cautele: intanto, scrive il team nell’articolo, sono state valutate solo le funzioni epatiche più basilari; inoltre, il periodo di osservazione è durato solo dieci giorni (su richiesta dei familiari del paziente), per cui sono necessarie ulteriori ricerche per valutare in modo più ampio la funzionalità dell’organo e la risposta dell’organismo nel lungo termine.
Certo, questo studio non fornisce ancora una soluzione clinica, ma è un ulteriore, concreto segnale di un possibile futuro in cui gli organi da donatore umano non saranno più l’unica risorsa per chi ha bisogno di un trapianto. È un orizzonte che si avvicina, e che la scienza sta imparando a raggiungere con metodo, cautela e una certa dose di coraggio da parte dei ricercatori e ricercatrici, dei pazienti e dei loro familiari.