Mentre si parla dell’insediamento sull’ex area di Expo 2015 di numerose attività di ricerca biomedica, dalla Corte di Cassazione è arrivato un’importante segnale a sostegno della sperimentazione animale con la sentenza n. 14694 del 19 Luglio 2016, che ha condannato la promotrice di un sito Internet animalista che aveva bollato come “vivisettori” i ricercatori di un istituto che utilizza animali nelle proprie attività di ricerca biomedica. A Milano, ad esempio, tra il 2013 e il 2014 ci furono diverse azioni di gruppi di animalisti contro i ‘vivisettori’: l’intrusione nei laboratori del dipartimento di Farmacologia dove vennero ‘rubati’, sotto gli occhi delle forze dell’ordine, i topi oggetto di diverse ricerche, manomessi gli schedari e distrutto il lavoro di anni; la ‘denuncia’ di alcuni ‘vivisettori’ sui muri di Città Studi con tanto di nome e cognome e indirizzo di casa, l’imbrattamento minaccioso dei muri esterni dei laboratori della Sen. Elena Cattaneo, fino alla convocazione di una mobilitazione ‘nazionale’ contro l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri. La Corte di Cassazione, pur prendendo atto che i termini ‘vivisezione’ e ‘sperimentazione animale’, ovvero l’uso di animali nella ricerca di nuovi farmaci e di nuove terapie, nel linguaggio corrente sono ormai usati come sinonimi, ha condannato l’autrice per aver utilizzato i termini vivisezione e vivisettori per connotare negativamente, dal punto di vista etico, l’attività di sperimentazione, aggiungendo che l’uso esclusivo dei termini anzidetti non incideva sulla verità dei fatti, ma incideva sulla continenza del messaggio “per la forte suggestione negativa che esercita”. In altre parole, secondo la Corte di Cassazione il termine vivisezione può anche essere usato, ma non può essere brandito come una clava per indicare al pubblico ludibrio chi fa ricerca. Si tratta di una sentenza importante perché, quanto meno, costringerà i militanti animalisti a moderare l’aggressività verbale nella loro battaglia per eliminare, qui ed ora, l’utilizzo di animali nella ricerca biomedica, sostituendoli con i metodi alternativi che, al momento, però, sono come l’Araba Fenice. Come confermato, infatti anche recentemente, dall’European Union Reference Laboratory for Alternatives to Animal Testing (EURL ECVAM), il centro europeo di riferimento per la ricerca e la validazione di metodi alternativi alla sperimentazione animale, che volge la sua attività presso l’Institute for Health and Consumer Protection di Ispra dal 1991: “Malgrado i notevoli progressi registrati in quest’area, è corretto affermare che i metodi alternativi non sono in grado di sostituire la sperimentazione animale in tutti i settori implicati. In particolare, per gli effetti (o ‘endpoint’) tossicologici più complessi, i test sugli animali sono tuttora necessari per garantire la sicurezza dei consumatori ecc. ecc.”. L’opposizione all’utilizzo di animali nella ricerca biomedica non ha, in altri termini una base scientifica, ma solo ideologica. In Italia ogni anno si usano poco più di 700mila animali di cui, tra l’80 e il 90%, topi e ratti. Quello che non si comprende, se la priorità è la vita dell’animale, è perché l’iniziativa animalista non si concentri, allora, in primo luogo, per l’abolizione della derattizzazione che, annualmente, solo in Italia, uccide in modo atroce qualche decina, se non centinaia, di milioni di topi e ratti.
Sergio Vicario
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