Uno studio condotto dall’Università di Parma e dalla Scuola Sant’Anna di Pisa permette per la prima volta di studiare l’attività delle aree motorie del cervello in primati completamente liberi di muoversi. La ricerca ha rivelato che i neuroni lavorano in modo più flessibile di quanto si pensasse, attivandosi per diverse azioni in una sorta di “melodia cinetica del movimento”. Questi risultati aprono nuove prospettive sia per la comprensione del comportamento naturale sia per possibili applicazioni in campo riabilitativo
Mangiare, bere, sbadigliare, grattarsi, correre, arrampicarsi..: in che modo il cervello ci permette di eseguire movimenti e comportamenti? Rispondere a questa domanda ha una duplice valenza. Da una parte, rappresenta una questione di ricerca di base: offre cioè informazioni in più sul controllo neuromotorio delle azioni, un campo sul quale negli anni abbiamo imparato molto ma che ha anche diversi aspetti poco noti. Dall’altra, ha un ruolo importante per la ricerca applicata, perché può aiutare quei contesti in cui il movimento è perduto (per esempio a causa di lesioni del midollo spinale), suggerendo strategie per ripristinare la possibilità di muoversi.
Per queste ragioni, lo studio del controllo dei movimenti è un campo molto attivo. Ma che, storicamente, opera su animali – e in taluni casi umani – i cui movimenti sono molto limitati. Ora, uno studio pubblicato su Science e frutto della collaborazione tra il Laboratorio di Neuroetologia dei Primati non Umani dell’Università di Parma e l’Istituto di Biorobotica della Scuola Sant’Anna di Pisa, apre la strada a un’altra possibilità: studiare l’attività neuronale in animali liberi di muoversi.
Studiare il movimento… in movimento
Sebbene studiare il movimento in animali che stanno fermi possa sembrare un paradosso, c’è una buona ragione per cui è stata la strategia prevalente negli ultimi quarant’anni. Studiare il cervello di un animale in movimento è estremamente complesso, e le tecnologie per analizzare il comportamento delle diverse aree cerebrali, o dei neuroni, richiedevano che il sistema studiato (il cervello) fosse immobile per poter fornire risultati riproducibili. Di conseguenza, le ricerche – in particolare quelle sui primati – sono state portate avanti su animali addestrati a svolgere alcune azioni con la mano, il braccio o gli occhi, mentre sono su una sedia, con la testa bloccata per limitarne la mobilità. In questo modo, abbiamo imparato alcune cose sui neuroni cerebrali che controllano i movimenti, ma ciò che sappiamo rappresenta solo una parte di quello che avviene naturalmente durante le moltissime attività che svolge un corpo libero di muoversi.
Il nuovo studio riesce a superare questa (è il caso di dirlo) immobilità forzata, aprendo la strada a una ricerca che consenta di raccogliere dati sull’attività neuronale di animali del tutto liberi di muoversi. Un doppio vantaggio: in termini di dati, che possono in questo modo rispecchiare ciò che avviene in un corpo che si muove liberamente, come avviene nel quotidiano; e in termini di benessere animale, perché i macachi possono svolgere le proprie attività senza ingerenze, addestramenti e manipolazioni da parte degli operatori.
Arrivare a questo risultato ha richiesto otto anni di lavoro. Su Research4Life ne avevamo spiegato la metodologia già un paio di anni fa: ai macachi sono impiantati chirurgicamente degli elettrodi che registrano l’attività neurale della corteccia premotoria, un’area del cervello deputata non solo al controllo del movimento ma anche ad attività più complesse, come la programmazione dell’azione. I dati registrati possono quindi essere scaricati su una SD card, un piccolo dispositivo di memoria (come quello degli smartphone). «Nel nostro studio abbiamo usato due macachi: la mole di dati raccolta è però sufficiente per anni di analisi», commenta Luca Bonini, responsabile scientifico del Laboratorio di Neuroetologia dei Primati non Umani dell’Università di Parma e membro del consiglio direttivo della Società Italiana di Neuroscienze, soggetto aderente di Research4Life. «Studi simili sono in passato stati condotti sui ratti, i cui movimenti sono però piuttosto semplici: minore è lo sviluppo della corteccia cerebrale, infatti, più limitato è il movimento. I primati, invece, sono molto più simili a noi dal punto di vista neuromotorio».
Questo tipo di studio è, appunto, un modo per aprire la strada a un nuovo metodo d’indagine. Ma ha anche già potuto fornire risultati significativi, che richiedono di ripensare a ciò che sappiamo del controllo neuronale del movimento. Uno degli elementi più rilevanti che emergono dal lavoro è come singoli neuroni codifichino diverse azioni.
«Gli studi condotti finora in contesti restrittivi, nei quali cioè l’animale non era libero di muoversi, avevano messo in luce l’attivazione di specifici neuroni per specifiche azioni. Si era osservato, cioè, che alcuni neuroni si attivano solo quando l’animale compie una specifica azione, come bere, mordere o afferrare un oggetto. Questa specializzazione, chiamata codifica sparsa, implica che ogni neurone sia selettivo per uno o al massimo pochi movimenti», spiega Bonini. «Ciò che abbiamo osservato nei macachi liberi di muoversi, invece, è una codifica mista. Molti neuroni hanno cioè una funzione più flessibile: si attivano in relazione a diverse azioni. Per esempio, un singolo neurone potrebbe rispondere sia quando il macaco usa la mano per prendere del cibo, o per camminare, sia quando usa la bocca per mordere qualcosa».
In termini pratici, quindi, il cervello non controlla i movimenti come un robot che programma ogni parte del corpo singolarmente. I neuroni lavorano invece insieme in sinergie motorie, coordinando diverse parti del corpo per compiere azioni fluide e naturali. In altre parole, spiega Bonini, sono come melodie nelle quali le stesse note possono produrre accordi differenti: è una «melodia cinetica del movimento».
Un altro elemento significativo che emerge dallo studio riguarda il deconding delle azioni, cioè la tecnica che consente di interpretare l’attività cerebrale e capire quale azione sta compiendo l’animale. Il decoding si basa su algoritmi di machine learning, addestrati su un insieme di dati neuronali e poi testati per valutare la loro capacità di riconoscere correttamente le azioni “leggendo” altri dati neuronali, diversi da quelli impiegati per l’addestramento dell’algoritmo. «Abbiamo scoperto che, quando i modelli sono addestrati con dati raccolti da animali liberi di muoversi, riescono a riconoscere le azioni con maggiore precisione anche se eseguite nel contesto restrittivo classico, ma non altrettanto viceversa. Infatti, nel contesto di movimento libero l’attività neuronale è più ricca e complessa, perché include una varietà di comportamenti spontanei e meno prevedibili: questa complessità fornisce al modello più informazioni da utilizzare per distinguere tra diverse azioni», spiega Bonini.
Dalla neurofisiologia alla neuroetologia
È in base a questi risultati che autori e autrici dello studio sottolineano l’importanza di spostarsi dai tradizionali studi di neurofisiologia (lo studio del cervello e dei suoi meccanismi in condizioni restrittive e controllate) a quelli di neuroetologia (nei quali si studia il cervello in un contesto naturale o in condizioni che simulano ambienti reali), che offrono risultati ecologicamente più validi e quindi anche più facilmente generalizzabili. «La neuroetologia pone anche un altro importante vantaggio: limita la necessità di addestrare gli animali a svolgere determinati compiti, spesso artificiosi e complessi. Il cervello è plastico, e ogni forma di apprendimento determina una risposta in termini di riorganizzazione neuronale; se possiamo evitare l’addestramento, evitiamo anche di incappare in risultati influenzati da questa plasticità indotta», commenta Bonini.
«Sono innumerevoli i campi d’indagine che questo tipo di studio ci apre. Su queste basi, vogliamo ora innanzitutto studiare come le sinergie neuronali che guidano i movimenti si costruiscono e in che modo supportano il comportamento. Per quanto riguarda quest’ultimo, la possibilità di studiare animali liberi di muoversi significa poter raccogliere dati anche su comportamenti mai studiati prima, come lo sbadiglio. Pensiamo a quest’ultimo: è noto come un comportamento ampiamente diffuso tra le specie, contagioso, e che ha anche un importante ruolo sociale nei primati non umani. Ci sono neuroni che lo regolano a livello corticale e volontario, come per esempio quando cerchiamo di trattenerlo o di sbadigliare senza spalancare la bocca?».
Ancora, in prospettiva, l’approccio neuroetologico può contribuire a migliorare le terapie neuroriabilitative: sapere come il cervello organizza i movimenti spontanei e complessi può aiutare a progettare terapie che, per esempio, si focalizzino sulle sinergie neuronali. Anche la maggiore accuratezza del decoding dai contesti liberi potrebbe migliorare la capacità delle interfacce cervello-macchina, come le protesi robotiche, di adattarsi a situazioni variabili e complesse della vita reale.
Insomma, lo studio del movimento in condizioni di libertà non solo rappresenta un avanzamento tecnico nella ricerca neuroscientifica, ma segna un vero e proprio cambio di paradigma nel modo di studiare il cervello e le sue funzioni. Passare dalla neurofisiologia tradizionale alla neuroetologia significa poter finalmente osservare il “cervello al naturale”, con tutte le sue complesse sinergie e la sua sorprendente flessibilità. Una svolta che promette di avere importanti ricadute non solo sulla comprensione dei meccanismi cerebrali di base, ma anche sullo sviluppo di terapie riabilitative più efficaci e interfacce cervello-macchina più precise. Il futuro della ricerca sul movimento potrebbe essere proprio qui: nella libertà di osservare il cervello mentre orchestra la sua naturale “melodia cinetica”.