Victor Ambros e Gary Ruvkun sono stati insigniti del Premio Nobel per la Medicina 2024 per la scoperta del microRNA e del suo ruolo nella regolazione genica post-trascrizionale, avvenuta grazie a studi sul nematode Caenorhabditis elegans
Lunedì 7 ottobre il Premio Nobel per la Medicina o Fisiologia 2024 è stato assegnato Victor Ambros e Gary Ruvkon «per la scoperta del microRNA e il suo ruolo nella regolazione genica post-trascrizionale». Con un lavoro partito all’inizio degli anni Novanta, i due biologi hanno scoperto uno dei meccanismi alla base di una delle caratteristiche più intrigante delle cellule degli organismi complessi: la diversità che caratterizza i diversi tessuti nonostante un patrimonio genetico condiviso.
Tutte le cellule di un organismo contengono infatti lo stesso DNA. Com’è possibile, allora, che alcune diventino per esempio cellule muscolari, capaci di contrarsi? Oppure neuroni, capaci di comunicare tra loro con una segnalazione elettrochimica? O ancora cellule intestinali capaci di assorbire i nutrienti? Un primo meccanismo alla base di queste differenze era noto fin dagli anni Sessanta: molecole specifiche, i fattori di trascrizione, possono legarsi a specifiche regioni del DNA attivando o bloccando la trascrizione dei geni in RNA messaggero (e di conseguenza, la produzione della proteina per cui codificano).
Nel 1993, però, Ambros e Ruvkon pubblicarono uno studio che descriveva un processo finora sconosciuto, e anche inaspettato. Dimostrarono, cioè, che la regolazione dell’espressione genica può avvenire anche dopo che il DNA è stato trascritto in molecole di RNA messaggero. Come? Grazie a brevi sequenze di un altro tipo di RNA, in grado di legarsi al trascritto sull’RNA messaggero bloccandone la traduzione in proteina. Questo tipo di RNA, oggi noto come microRNA, si è rivelato in seguito fondamentale per la regolazione dell’espressione genica: oggi sappiamo che anomalie in questo processo di regolazione post-trascrizionale possono essere alla base di diverse patologie, tra contribuendo per esempio allo sviluppo di tumori. È insomma un processo essenziale per la regolazione dell’espressione genica, conservatosi nel corso dell’evoluzione, nel corso della quale ha contribuito allo sviluppo di organismi di crescente complessità – umani compresi.
Un piccolo verme, molte scoperte
Eppure, la scoperta di questo fondamentale meccanismo è avvenuta in un animale ben lontano dall’essere umano. Per la precisione, in Caenorhabditis elegans, un nematode molto famoso negli studi biomedici. È infatti un organismo modello ampiamente utilizzato in ricerca e, per esempio, gli studi sull’apoptosi (la morte cellulare programmata) condotti su C. elegans hanno portato all’assegnazione del Premio Nobel per la Medicina del 2002. Pur essendo lungo appena un millimetro e con un numero limitato di cellule (si tratta di un organismo eutelo, cioè con un numero fisso di cellule: 959 nell’ermafrodita adulto, 1.031 nel maschio), molte di queste sono specializzate e formano strutture riproduttive, muscolari, neurali (come avevamo scritto qui, i neuroni sono per la precisione 302).
Ambros e Ruvkon iniziarono a lavorare su C. elegans alla fine degli anni Ottanta, quando erano insieme nel laboratorio di Robert Horvitz – per inciso, proprio uno dei vincitori del Nobel per la Medicina del 2002 per i suoi studi sull’apoptosi. Studiavano i geni responsabili del controllo del tempo di attivazione dei diversi programmi genetici e che garantiscono che vari tipi di cellule si sviluppino al momento giusto. In particolare, si erano concentrati su due ceppi mutati di C. elegans, indicati come lin-4 e lin-14, che presentavano difetti nel tempo di attivazione dei programmi genetici durante lo sviluppo: l’idea era capire quali geni fossero coinvolti e come influissero nel processo. Sapevano che il gene lin-4 agiva come regolatore negativo del gene lin-14, ma non come avvenisse questa regolazione.
Nel corso del tempo, Ambros e Ruvkon andarono in laboratori diversi, ma la loro ricerca continuò su una linea comune: il primo scoprì che lin-4 produceva una molecola di RNA insolitamente corta, che non codificava per nessuna proteina; il secondo, che lin-4 non agiva sulla produzione di RNA messaggero di lin-14 – in altre parole, il gene riusciva a inibire la produzione della proteina di lin-14 ma senza interferire con la sua trascrizione. Sembrava insomma esserci un meccanismo di regolazione che avveniva a valle del processo di trascrizione.
Un ultimo pezzo del puzzle arrivò dalla scoperta che una breve sequenza dell’RNA messaggero di lin-4 era necessario per la regolazione negativa di lin-14, e che tale sequenza sembrava corrispondere a una sequenza complementare sul trascritto di lin-14. Confrontate le loro scoperte e messi insieme i dati, i due ricercatori poterono dimostrare quel meccanismo di regolazione genica, fino a quel momento insospettato, basato sull’appaiamento di un microRNA con una corrispondete sequenza sull’RNA messaggero.
Da C. elegans agli organismi più complessi
I loro risultati, pubblicato in due studi su Cell, rimasero per diversi anni quasi ignorati: interessanti ma, si pensava, propri solo di un organismo semplice e apparentemente tanto distante dal nostro come il piccolo C. elegans. Solo nel 2000 si capì che le cose non stavano affatto così: Ruvkin scoprì infatti un altro microRNA. E questo era codificato da un gene tutt’altro che peculiare del nematode ma, al contrario, altamente conservato nel regno animale.
Da quel momento, la ricerca sui microRNA è avanzata a grande ritmo, portando alla scoperta sia di nuove molecole di microRNA sia ai meccanismi con cui sono prodotti e indirizzati alle sequenze target sull’RNA messaggero. È stato inoltre chiarito come permettono la regolazione negativa (il legame delle due molecole porta alla degradazione dell’RNA messaggero o ne inibisce la sintesi proteica), e ancora come diversi microRNA possano regolare diversi geni, mentre un singolo gene può essere inibito da diversi microRNA.
Il lavoro di Ambros e Ruvkon, che ora si vede assegnare il riconoscimento più prestigioso in campo scientifico, dimostra ancora una volta quanto la ricerca di base, spesso condotta su organismi semplici e apparentemente distanti dall’essere umano, sia fondamentale per comprendere i meccanismi complessi alla base della vita.