“Vivisezione” è un termine che compare ancora molto spesso quando si fa riferimento alla sperimentazione animale. È anche, però, un termine ambiguo e che in molti sensi distorce ciò che è l’uso degli animali in ambito scientifico.
In termini strettamente etimologici, la parola viene dal latino e indica il “taglio dal vivo”. È innegabile che, in ambito scientifico, le pratiche che richiedono l’impiego di animali necessitino di individui vivi, per valutare per esempio come l’organismo risponda a un farmaco, quali dinamiche biologiche siano alla base di un certo processo fisiologico o patologico, o anche per studiare come si comporta nei diversi contesti e così via. Questo, però, non significa sottoporre un animale, sveglio e cosciente, a pratiche brutali e dolorose – che è invece ciò che inevitabilmente richiama alla mente il termine vivisezione.
Perché?
Cerchiamo di partire dalle origini. La pratica della vivisezione ha, in effetti, avuto un largo impiego nei secoli passati, quando la sensibilità e le conoscenze nei confronti delle altre specie erano molto meno sviluppati rispetto a oggi. Gli animali, in effetti, sono stati a lungo visti come “macchine stimolo-risposta”, in sostanza automi incapaci di provare dolore e sofferenza: il riferimento parte in particolare dall’opera cartesiana Discorso sul metodo, del 1637, sebbene le interpretazioni, rivisitazioni ed evoluzioni della dottrina cartesiana, da parte dello stesso filosofo e altri a seguire, siano molto più complesse.
È innegabile, comunque, che in passato non ci fosse molto scrupolo a condurre sulle altre specie indagini e ricerche che oggi non possono che apparirci brutali. È altrettanto innegabile, e vale la pena dirlo, che da alcuni di questi esperimenti abbiamo imparato molto su come funzionano gli organismi viventi, siano o meno umani. Per fare un esempio, i primi lavori che portarono a capire come i chirotteri si orientino non grazie alla vista ma grazie al suono, cioè sulla base degli ultrasuoni che rimbalzano sulle superfici, risalgono al Settecento e si devono allo scienziato Lazzaro Spallanzani. Accecando alcuni pipistrelli, si rese conto di come rimanessero in grado di orientarsi, capacità che perdevano se venivano invece “assordati” tappando loro le orecchie con la cera calda.
Nulla del genere potrebbe essere riprodotto ora. E veniamo qui al perché non possiamo più parlare di vivisezione – almeno se il termine è inteso non nel suo significato etimologico ma come pratica incurante della sofferenza e del dolore degli animali.
Oggi, infatti, la legge che regola l’uso degli animali a fini scientifici è molto chiara sulla necessità di risparmiare ogni forma di stress, dolore e sofferenza. Nella direttiva 2010/63/EU, che regola la sperimentazione animale nell’Unione europea, l’articolo 13 è dedicato proprio a questo concetto, in riferimento ai metodi che possono essere impiegati: innanzitutto, esplicita che non possono essere usati animali se sono a disposizione altre strategie per ottenere lo stesso risultato; quindi, al paragrafo 2, indica che
Nella scelta della procedura, sono selezionate quelle che rispondono in maggior misura ai seguenti requisiti:
a) Usano il minor numero possibile di animali
b) Causano il meno possibile dolore, sofferenza, angoscia o danno prolungato e offrono le maggiori probabilità di risultati soddisfacenti
Inoltre, sempre l’articolo 13 indica la morte dell’animale come punto da evitare ma, qualora questo non sia possibile, stabilisce che debba avvenire quanto più possibile senza dolore. In termini pratici, ciò significa che, oggi, le procedure che prevedono l’impiego degli animali siano ben diverse dalla vivisezione del passato. Infatti, è sempre la direttiva 2010/63/EU a vietare, nell’articolo 14, procedure che comportano gravi lesioni e possono dunque causare dolore avvengano senza anestesia. Se, passato l’effetto di quest’ultima, l’animale mostra segni di dolore, è allora richiesta la somministrazione di analgesici o altri metodi antidolorifici adeguati.
Non a caso, l’articolo successivo della direttiva è dedicato alla classificazione della gravità delle procedure, un passaggio fondamentale in ambito scientifico e al quale abbiamo infatti già dedicato un approfondimento.
Al di là di quanto previsto dalla legge, vale anche la pena ribadire ciò che più volte abbiamo sottolineato su questo sito: evitare dolore e sofferenza, anche psicologica, agli animali usati nelle pratiche scientifiche è una questione primaria non solo in termini etici, ma anche pratici e scientifici. Le risposte di un individuo sotto stress o sofferente a un farmaco (per non parlare di eventuali studi dedicati al suo comportamento) sono infatti alterate dallo stesso stress e sofferenza. Scientificamente, quindi, comportano un errore che potrebbe invalidare tutto il lavoro di ricerca e test. E, di conseguenza, la vivisezione (sempre intesa come pratica condotta su un animale cosciente, per la sofferenza del quale non c’è alcun interesse) non ha alcuna ragione di essere.