La plasticità neurale è la capacità del cervello modificarsi in risposta a stimoli ed esperienze. Ci facciamo raccontare i meccanismi alla base di questa adattabilità e come possano essere sfruttati per sviluppare terapie innovative per disturbi diversi disturbi mentali

Per molti secoli, il mondo scientifico ha visto il cervello come un organo che, giunto al suo pieno sviluppo dopo l’adolescenza, rimaneva poi fisso e immutato, fino all’irreversibile degenerazione legata all’invecchiamento. Con lo sviluppo delle moderne tecniche d’indagine neuroscientifica, a partire dalla fine del XX secolo, è man mano diventato chiaro che il nostro cervello è tutt’altro che statico. Il sistema nervoso degli animali, umani compresi, ha invece una straordinaria capacità di modificare la propria struttura e funzionalità in risposta a esperienze, stimoli, danni o cambiamenti nell’ambiente.

È proprio questa caratteristica, definita plasticità neurale e basata sulla riorganizzazione delle connessioni sinaptiche e sulla formazione di nuovi neuroni, a renderci in grado di adattarci e imparare; nel caso si verifichino lesioni cerebrali, come può avvenire per esempio in caso di ictus, la plasticità neurale può compensare parzialmente la perdita di funzionalità. Alcuni disturbi neurodegenerativi e psichiatrici, come per esempio la malattia di Alzheimer e la depressione, invece, sono associati a disfunzioni della plasticità neuronale.

Comprendere i meccanismi della plasticità neuronale è quindi fondamentale non solo per capire il funzionamento fisiologico del sistema nervoso, ma anche per individuare le alterazioni nel caso di alcune patologie, e come possano essere trattate.

Ne parliamo con Giuliano Didio, che ha di recente concluso il proprio dottorato presso il Neuroscience Center dell’Università di Helsinki approfondendo questi meccanismi.

Di cosa ti occupi nel tuo lavoro di ricerca?

La mia ricerca si focalizza sullo studio della plasticità neurale. Sai quando si dice che i bambini imparano più in fretta degli adulti? Che il cervello dei bambini è più plastico e assorbe tutto? Ecco, tutto questo è tendenzialmente vero. Il cervello è infatti plastico, cambia le sue connessioni di volta in volta a seconda delle necessità. Si tratta di una capacità fondamentale per permetterci imparare, dimenticare, in generale adattare il nostro comportamento a ogni situazione. Questa plasticità è sicuramente molto accentuata nei bambini, ma è ovviamente presente anche negli adulti (infatti anche da adulti riusciamo ancora a imparare cose nuove). Ecco, io studio i meccanismi biologici della plasticità neurale nel cervello adulto, e in che modo possa essere usata per curare disturbi mentali come la sindrome da stress post-traumatico e la dipendenza da cocaina, patologie complesse ma molto diffuse.

Che ruolo hanno gli animali in questo contesto?

I modelli animali sono fondamentali in questo campo. Dovendo studiare elementi come memoria, apprendimento e disturbi mentali, devo necessariamente usare modelli che sono in grado di ricordare, apprendere e avere una vasta gamma di stati d’animo.

Su quali specie lavori, e perché proprio quelle?

Lavoro sui topi. Sono un ottimo modello perché hanno una grande capacità di apprendimento, e sono in grado di mostrare abbastanza chiaramente diverse emozioni, come paura, felicità, tristezza e curiosità. Per esempio, quando un topo è spaventato rimane perfettamente immobile, oppure quando è stressato o in stato di disagio comincia a trascurare la propria “igiene” (sembra strano, ma i topi fanno il cosiddetto “grooming”, ovvero si allisciano e puliscono il pelo, come i gatti. Quando sono in stato di disagio fisico o mentale smettono di farlo e il pelo risulta visibilmente arruffato e sporco). Oppure quando un topo è sereno e felice lo si vede in comportamenti come il pulirsi il viso con le zampe anteriori o il curiosare in giro. Qualunque scienziato lavori con i topi in Europa impara a riconoscere questi segnali di agio o disagio. Questo rende il topo un modello molto “espressivo” e utile nello studio di malattie mentali e dell’umore.

Quali sono le osservazioni principali cui siete arrivati?

Dunque, il nostro cervello è formato da miliardi di cellule chiamate neuroni. Queste cellule sono tutte connesse tra di loro (le famose “connessioni”, quelle che cambiano in continuazione). Questi neuroni e le loro connessioni sono ciò che fa funzionare il nostro cervello. Ma i neuroni non sono tutti uguali, anzi! Ce ne sono di diversi tipi, con forme diverse, dimensioni diverse e con funzioni diverse.

Noi (i miei colleghi e io) abbiamo identificato un piccolo gruppetto di neuroni, chiamati cellule “PV+”, che esprimono una molecola detta Parvalbumina. È proprio questo gruppo di cellule PV+ a essere responsabile delle proprietà terapeutiche di farmaci a base di fluoxetina cloridrato nel trattamento della sindrome da stress post-traumatico. Siamo molto contenti di questa nuova informazione, perché ci permette di provare a sviluppare terapie più efficaci. E questo è particolarmente importante, perché al momento le cure per la sindrome da stress post-traumatico, depressione, disturbi d’ansia etc hanno ancora limiti significativi. Abbiamo pubblicato questa ricerca nel 2023. Ora sto svolgendo uno studio simile ma nell’ambito della dipendenza da cocaina.

I modelli alternativi hanno un ruolo nella tua ricerca? Con quali limiti e quali potenzialità future?

Nel mio laboratorio usiamo i modelli animali nel momento in cui abbiamo bisogno di valutare per esempio memoria, apprendimento e umore (nel senso di stato d’animo). Tutto ciò che studiamo a monte, come meccanismi molecolari e/o cellulari, lo indaghiamo nei cosiddetti modelli in vitro (cellule su una piastra). Ovviamente le cellule in piastra non mostrano “paura” o “felicità”; per questo la loro utilità è al momento limitata a studi non legati al cervello in quanto organo pensante. Sono tuttavia sono ottimi per rispondere a domande più specifiche, tipo: «ma come reagisce un neurone quando esposto a un antidepressivo?».

Lascia un commento