Quando possibile, gli animali usati in ricerca possono essere affidati a strutture che diano loro una vita fuori dai laboratori e, a seconda delle specie, promuoverne l’adozione. È il concetto di rehoming, regolamentato in Italia dal decreto legislativo 26/2014, cui nel 2021 si è aggiunto il decreto ministeriale che stabilisce i requisiti per gli enti affidatari

«Gli animali utilizzati o destinati a essere utilizzati nelle procedure, previo parere favorevole del medico veterinario di cui all’articolo 24, possono essere reinseriti o reintrodotti in un habitat adeguato o in un sistema di allevamento appropriato alla loro specie». È l’articolo 19 del decreto legislativo che norma la sperimentazione animale in Italia e che definisce la possibilità del rehoming. Una “quarta R” rispetto alle canoniche 3R che definiscono i principi base della sperimentazione animale: non solo ridurre, rifinire e rimpiazzare, quindi, ma anche trovare nuova dimora al di fuori dei laboratori, compreso – a seconda delle specie – l’ambiente domestico.

Rappresenta un’opzione di fondamentale importanza per la tutela del benessere degli animali – e, come documentato anche da alcuni studi, per quella degli operatori e dei ricercatori. Per chi si occupa e cura gli animali, infatti, la soppressione è nota per essere fonte di forte stress e per contribuire alla compassion fatigue, l’esaurimento emotivo dovuto al continuo contatto con la sofferenza degli animali.

Iniziamo qui ad approfondire alcuni aspetti del rehoming.

Quando è possibile il rehoming?

Non tutti gli animali usati a fini scientifici possono, al termine delle procedure, essere affidati a enti o associazioni esterne. Il decreto legislativo, in accordo con la Direttiva EU 2010/63/EU, specifica che la reintroduzione può avvenire previo parere favorevole del veterinario responsabile e solo per gli animali il cui stato di salute permetta il ricollocamento, quando non vi è pericolo per la sanità pubblica, l’ambiente e la salute dell’animale stesso, e se sono state adottate le misure per la salvaguardia del benessere animale. Inoltre, è necessario sia stato adottato un programma di reinserimento per la socializzazione degli animali e, per le specie selvatiche, di riabilitazione prima del ritorno al loro habitat.

La Federation of European Laboratory Animal Science Associations (FELASA) ha inoltre pubblicato delle raccomandazioni più dettagliate relative alla ricollocazione degli animali. Per esempio specificano che, se l’animale avesse bisogno di trattamenti veterinari a vita, dovrebbe essere abituato a riceverli prima del rehoming; e che la valutazione dello stato di salute mentale non è meno importante di quella dello stato fisico. Le raccomandazioni specificano la necessità di prestare attenzione all’ambiente pre- e post-ricollocazione: contatti con umani o animali di altre specie, stimoli visivi, olfattivi, uditivi, sono tutti elementi da tenere in considerazione nel preparare l’animale al nuovo ambiente. Tra le molte indicazioni fornite da FELASA, alcune sono relative ai potenziali adottanti (o affidatari) degli animali: in modo molto realistico, ricordano infatti che è possibile vengano sottostimate le necessità dell’animale, o sovrastimate le sue capacità di adattamento al nuovo ambiente e alla nuova routine; è dunque fondamentale verificare che chi si prenderà cura dell’animale non abbia solo spazi adeguati, ma sia anche informato sulle sue necessità (e anche dei costi economici di mantenimento e cure di cui sarà responsabile).

A chi possono essere affidati gli animali?

La legge italiana del 2014, a differenza di quella di altri paesi EU, ha inoltre specificato che i requisiti strutturali e gestionali degli enti che si occupano di reinserimento sono stabiliti da Ministero della Salute. Il decreto che stabilisce tali requisiti è in realtà di molto successivo alla legge per la tutela degli animali usati a fini scientifici: risale infatti al 2021 ed è entrato in vigore nel 2022.

Il decreto stabilisce dove possono essere ricollocati gli animali distinguendo innanzitutto le specie tra animali da compagnia e fauna selvatica nazionale. In base al Regolamento UE 429/2016, gli animali da compagnia sono per esempio cani, gatti, furetti, conigli e roditori (non destinati alla produzione alimentare), i volatili diversi da polli (tacchini, oche eccetera), ma anche rettili, anfibi, specie acquatiche ornamentali, invertebrati (diversi da api, alcuni molluschi e crostacei). Gli stabilimenti che possono ospitare gli animali comprendono diverse strutture, dai rifugi per gli animali da compagnia agli stabilimenti zoologici, fino a quelli di solito chiamati santuari – strutture dove possono essere ricollocati anche, per esempio, i primati non umani – sempre se sono in possesso dei requisiti richiesti. Un discorso a parte va fatto per gli animali «appartenenti a specie zootecniche» (un esempio sono i polli, peraltro molto utilizzati in Italia a fini regolatori, come avevamo evidenziato nelle ultime statistiche sulla sperimentazione animale): questi possono infatti essere reintrodotti nel sistema di allevamento.

Il processo di reinserimento dev’essere inoltre valutato da un veterinario che stabilisce, «anche con l’eventuale supporto di un esperto di comportamento animale», se è necessario un programma di rieducazione fisica e comportamentale. Segue l’elenco dei documenti e dei requisiti necessari affinché le strutture di ricollocamento possano essere riconosciute come affidatarie (pratiche e procedimento sono anche disponibili sul sito del Ministero della salute, insieme a quelle necessarie per essere riconosciuti come associazioni di protezione degli animali). Requisiti minimi per accogliere gli animali sono quelli volti a garantirne il benessere psicofisico, anche in considerazione delle loro necessità etologiche: non solo cibo, acqua e alloggi adeguati, nonché cure veterinarie preventive e riabilitative, ma anche arricchimento ambientale, formazione del personale, possibilità di esercizio fisico. Com’è intuitivo attendersi, devono essere adottate tutte le precauzioni per evitare la fuga degli animali e le misure per evitarne la riproduzione.

E per gli enti scientifici che usano gli animali?

In questo contesto, è importante evidenziare che il decreto del 2021 prevede anche che «Utilizzatori, allevatori e fornitori inviano, entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto o dal rilascio dell’autorizzazione di cui all’art. 20 del decreto legislativo, un programma di reinserimento e di riabilitazione per ciascuna specie autorizzata al Ministero della salute». Il rehoming non è una pratica obbligatoria: il decreto legge del 2014 ne prevede soltanto la possibilità. Ma il decreto ministeriale richiede invece, in modo esplicito, che ogni ente coinvolto nella sperimentazione animale, allevatori compresi, rediga (e condivida con il ministero) un programma per attuarlo.

Sempre per quanto riguarda utilizzatori, fornitori e allevatori, è specificata la modalità di liberazione degli animali selvatici autoctoni. In ambito di ricerca, infatti, può avvenire che debbano essere prelevati alcuni animali in natura, per esempio per raccogliere campioni di sangue o altri tessuti, che sono poi reimmessi in libertà. Anche in questo caso, è previsto il certificato d’idoneità prima del rilascio; è anche necessario siano comunicati luogo, data di liberazione, specie e numero di animali da liberare.

Infine, con il decreto del 2021, gli enti scientifici che usano animali sono tenuti a indicare, per ciascun progetto di ricerca, quanti saranno poi ricollocati (o reintrodotti in natura) nella Banca dati nazionale sulla sperimentazione animali. In questo modo, è possibile avere dati precisi sulle percentuali di animali per i quali è stato possibile il rehoming e monitorarne l’andamento nel tempo.

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