Ricercatori alle prese con nuove frontiere di sviluppo quasi fantascientifiche, aziende in prima linea nel collaborare e finanziare centri di eccellenza internazionali su nuovi filoni, programmi europei (e non solo) con investimenti anche a otto zeri. Ma la verità resta una sola: la completa sostituzione della sperimentazione animale con tecniche in vitro è una meta ancora distante da raggiungere. Certo, metodi alternativi (o complementari, come sarebbe più corretto chiamarli nella maggior parte dei casi) sono stati introdotti negli ultimi anni. “Oggi i metodi alternativi validati sono cinquanta in Europa e novanta del resto del mondo” spiega Giuliano Grignaschi, responsabile dell’Animal care unit dell’Istituto Mario Negri di Milano e segretario generale di Research4Life (piattaforma che riunisce enti di ricerca, università, organizzazioni non profit e istituzioni per promuovere la diffusione della cultura della ricerca scientifica). Ma e doverosa una precisazione. “Tra i metodi approvati – prosegue -quelli di sostituzione completa sono una parte minore e sono rivolti al solo ambito tossicologico, principalmente per studi di irritazione oculare e cutanea. La restante quota è rappresentata da tecniche di sostituzione parziale (partial replacement) che sicuramente riducono il numero di animali utilizzati ma non lo eliminano completamente”. A spingere la ricerca in questo settore, oltre ad evidenti questioni etiche, sono anche i vantaggi economici che si potrebbero raggiungere. “Il costo di un metodo animale – stima il ricercatore – è all’inarca dieci volte superiore a quello di uno in vitro. Superata la prima fase di riconversione e di approvazione del nuovo sistema, infatti, non ci sono molti costi aggiuntivi mentre i risparmi sono enormi. Spesso c’è anche risparmio di tempo o di affidabilità del dato”. L’identificazione di nuove metodologie alternative è sollecitata anche dalla direttiva europea 2010/63 sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici, che all’articolo 47 recita: “La Commissione e gli Stati membri contribuiscono allo sviluppo e alla convalida di approcci alternativi idonei a fornire lo stesso livello, o un livello più alto d’informazione di quello ottenuto nelle procedure che usano animali, ma che non prevedano l’uso di animali o utilizzino un minor numero di animali o che comportino procedure meno dolorose, e prendono tutte le misure che ritengono opportune per incoraggiare la ricerca in questo settore”. Proprio sulla direttiva europea – di cui è prevista una prima fase di revisione nel 2017 – e sullo stato attuale dei metodi alternativi si focalizzerà il dibattito il prossimo 6-7 dicembre a Bruxelles in una conferenza organizzata dalla Commissione europea, a seguito di una raccolta firme (di cui il 60% in Italia) promossa dall’iniziativa “Stop Vivisection”. Sugli obiettivi dell’incontro, in una nota rilasciata dalla Commissione, si legge: “La comunità scientifica e le parti interessate (Stop Vivisection ha fatto sapere che non parteciperà perché la conferenza “non rispecchia né le preoccupazioni né gli obiettivi dei 1.173.131 cittadini che hanno decretato lo straordinario successo dell’iniziativa”, n.d.r.) potranno discutere come sfruttare i progressi nella ricerca biomedica e in altri campi per la definizione di approcci scientificamente validi che non prevedano l’uso di animali (alternativi alla sperimentazione animale)”.
Le aree di ricerca
Ma quali sono le nuove frontiere in sviluppo? Colture cellulari 3D,microfluidica e organomica sono gli ambiti su cui si stanno concentrando le attività dei ricercatori di tutto il mondo per cercare di fornire una trasposizione in vitro (seppur semplicistica) della complessità dell’organismo umano e delle sue interazioni. Ne sono un esempio i bioreattori, piattaforme in cui diverse tipologie di colture cellulare sono messe in comunicazione tra loro attraverso un sistema di microfluidica. Un superamento della tradizionale Piastra Petri monolayer che rappresenta “sicuramente una strada da percorrere – commenta il portavoce di Research4Life – pur essendo al momento ancora in una fase precoce di ricerca. Questi sistemi vanno validati da un punto di vista scientifico, prima ancora che tecnico”. Lo stesso principio in versione molto più miniaturizzata è adottato anche dai chip, microsistemi fluidici costituiti anche in questo caso da colture cellulari multiple e differenti che interagiscono tra loro sotto condizioni controllate. Una frontiera ancora più avanzata, invece, è rappresentata dagli organoidi, strutture tridimensionali ottenute da cellule staminali pluripotenti indotte, differenziate a seconda delle esigenze, per cercare di riprodurre la struttura e la funzione di precisi organi. Su questa scia sono stati prodotti i primi modelli dì organoidi cerebrali (mini-brain), piccole sferette di neuroni in studio per mimare le caratteristiche del cervello di un embrione umano. Anche in questo caso Grignaschi frena facili entusiasmi: “Sono ancora in una fase primordiale di sviluppo. L’informazione ricavata è ancora grezza e preliminare. Possono essere utilizzati per studi di tossicologia ma i risultati ottenuti devono essere inseriti e integrati con un’analisi della letteratura ed elaborazioni con sofisticati software”. Accanto ai metodi in vitro e in vivo, infatti, esistono metodi “in silico”, che sfruttano le capacità computazionali dei più moderni computer per incrociare tutte le informazioni a disposizione per cercare di prevedere un possibile effetto, accelerando in questo modo i tempi della ricerca. “Con i metodi in silico siamo in grado di selezionare in poco tempo le molecole più promettenti tra centinaia di composti candidati. Già oggi in un centro come il nostro, la maggior parte delle attività (circa l’85%) viene svolta con metodi in vitro. Il passaggio su un modello animale avviene solo se c’è necessità, dopo che tutti i metodi complementari sono già stati eseguiti e solo prima che il composto arrivi all’uomo” assicura il responsabile dell’Animal care unit dell’istituto lombardo. Secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della Salute riferiti all’anno 2014, gli animali utilizzati in Italia a fini scientifici sono in totale 691.666 (-30% rispetto al 2013), di cui la quasi totalità (97%) è rappresentata da topi e ratti. “Negli ultimi sette anni l’utilizzo dei topi è diminuito del 13% – prosegue il ricercatore – quello dei ratti del 49%, dei conigli del 36% e dei suini del 55%, mentre al contrario quello dei primati non umani è aumentato, da 416 del 2007 ai circa 450 del 2014. Una percentuale che resta comunque bassa (0,01%) sul totale e che probabilmente non sarà più comprimibile, visto che tali studi sono richiesti dall’iter regolatorio di approvazione di un nuovo farmaco”. Per la prima volta il totale degli animali utilizzati per scopi scientifici è però sceso sotto le 700 mila unità, come sottolineato dal ministero della Salute nel comunicato di accompagnamento dei dati. Una vittoria? No, secondo Grignaschi. “Topi, ratti e conigli sono utilizzati per lo più nella ricerca di base. La riduzione indica solo che facciamo fare i nostri studi all’estero. È una sconfitta per la nostra economia e per i ricercatori nazionale che devono andare all’estero a lavorare”.
I divieti italiani
A preoccupare non poco il ricercatore milanese sono anche le restrizioni alla direttiva europea sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici, introdotte solo dall’Italia con il decreto legislativo di recepimento 26 del 4 marzo 2014. Una decisione che ci è valsa la messa in mora con l’apertura di una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea. “La direttiva comunitaria è frutto di dieci anni di collaborazione tra i massimi esperti di benessere animale di laboratorio e le associazioni animaliste. Gli Stati membri dovevano recepirla senza ulteriori restrizioni, come esplicitato dall’articolo della normativa. L’Italia ha scelto di recepirla a modo suo, inserendo divieti che a mio avviso non hanno nulla a che vedere con il benessere animale. Impediamo ai nostri ricercatori biomedici di svolgere sul territorio nazionale quello che tutti gli altri ricercatori fanno a livello internazionale.
E per di più andremo a pagare una multa per essere meno competitivi degli altri Paesi europei e mondiali”. Con l’entrata in vigore del decreto è stato introdotto, ad esempio, il divieto di allevamento di cani, gatti e primati, ma non il loro utilizzo. “Il ricercatore – spiega Grignaschi – può quindi comprarli all’estero. Forse un vantaggio per il benessere dell’animale? Chi andrà a controllare la validità degli allevamenti stranieri? Per non parlare dei costi aggiuntivi. Per quanto riguarda i gatti, in realtà, questo è un finto problema perché non vengono utilizzati per fini scientifici già da dieci anni in Italia. Cani e primati invece sono usati, ma quasi esclusivamente per studi di tipo regolatorio. Allora, volendo essere coerenti, perché la normativa nazionale non ne ha vietato anche l’utilizzo, oltre all’allevamento? Presto detto. Vietarne l’uso avrebbe significato dire a tutte le industrie farmaceutiche di andare all’estero a fare ricerca, con la relativa perdita di tutto l’indotto e di opportunità di crescita per il Paese”. Non è più rosea la prospettiva futura. A meno di una proroga o di una cancellazione, dal primo gennaio del 2017 entreranno in vigore anche altre due grandi restrizioni: il divieto di utilizzo degli animali nello studio delle sostanze d’abuso e degli xenotrapianti d’organo. “Che tipo di metodo potrebbe esistere per studiare un trapianto d’organo, se non l’animale?” pone la questione il ricercatore, che prosegue: “Se non conosciamo ancora oggi quali sono i meccanismi che portano una persona ad abusare di una sostanza, come possiamo sostituire con certezza i modelli animali. Con l’entrata in vigore del divieto verrebbe discriminata la ricerca nei confronti dei bambini che nascono da madri tossicodipendenti. Come ricercatore sono sicuro che al momento metodi alternativi in questo campo non ve ne siano, altrimenti saremmo i primi ad usarli. Per questo come Research4Life chiediamo di tornare a un recepimento della direttiva europea integrale, cancellando il decreto legislativo 26/2014 e le sue restrizioni. Sono divieti di immagine, che non portano benefici per gli animali, ma solo danni – conclude Grignaschi – paralizzando specifici settori della ricerca italiana. In più ci costeranno una multa. Non c’è motivo per continuare in questa direzione”.
di Adiam Tekeste –
Estratto da AboutPharma del 02/11/2016 (pag. 64,65 e 66)