Una comunicazione trasparente sull’uso degli animali nella ricerca scientifica è essenziale per fornire a società mondo politico i mezzi per decisioni consapevoli. L’analisi condotta da EARA su 908 siti web di istituzioni europee mostra alcuni progressi sulla comunicazione, ma molte realtà, tra cui spiccano quelle italiane, non forniscono dichiarazioni né informazioni chiare e accessibili
Per un dibattito sulla sperimentazione animale che sia informato e permetta società e politica di prendere decisioni consapevoli, la comunicazione sulla sperimentazione e ricerca animale ha un ruolo imprescindibile. Un ente che usa gli animali per ricerca o per altri fini scientifici deve saper spiegare perché lo usa, come lo fa, quali specie sceglie, eccetera; perché la comunicazione sia efficace, inoltre, le informazioni devono essere non solo chiare ma anche trasparenti.
I siti web di istituzioni, università e altri enti che portano avanti questo tipo di studi sono uno dei punti di accesso principali per queste informazioni. Ma come se la cavano, a livello europeo? Riportano effettivamente queste informazioni? Quanto accuratamente?
È a queste domande che risponde l’EARA study of EU-based websites 2024, un’analisi che l’European Animal Research Association (EARA) compie per valutare la trasparenza degli enti scientifici europei che usano gli animali, i progressi compiuti nel corso del tempo (la prima analisi è stata pubblicata nel 2018, seguita da una seconda edizione nel 2020), i limiti da superare e, in generale, incoraggiare una maggior apertura alla corretta comunicazione sulla sperimentazione animale.
Ciò che ne emerge è un quadro variegato, ma nel quale sono molte le istituzioni che rendono pubbliche e facilmente accessibili le informazioni al pubblico sull’uso di animali all’interno delle loro strutture. Non si può dire altrettanto, però, delle realtà italiane, che sembrano avere ancora molta strada da fare per migliorare accessibilità e trasparenza su questi temi.
Metodi e risultati principali dell’analisi EARA
EARA ha condotto la sua analisi su 908 siti web di istituzioni coinvolte nella sperimentazione animale, indagando sei categorie di valutazione: innanzitutto, se il sito web dell’ente di riferimento avesse una dichiarazione riconoscibile sull’uso di animali per la ricerca; poi se erano fornire informazioni aggiuntive, per esempio relative alle specie usate, o alle statistiche di utilizzo, o al tipo di studi per le quali sono usati. La valutazione guardava poi a quanto fosse in evidenza e facilmente raggiungibile il contenuto della sezione dedicata alla sperimentazione animale, se fossero riportati immagini o video, e anche casi di studio che illustrassero il numero di animali. Infine – queste categorie sono riportate in quello considerato da EARA come ordine d’importanza – l’analisi valutava la presenza di informazioni più estese, come per esempio sezioni di FAQ.
Di questi, nemmeno la metà (45%) aveva dichiarazioni sull’uso di animali: in altre parole, significa che sono 502 le istituzioni, tra quelle analizzate (che ovviamente non rappresentano la lista completa di quelle che usano animali a fini scientifici), che pur facendo uso di animali non ne parlano sul proprio sito web. E appena un quarto prevede informazioni aggiuntive. Anche quando dichiarazioni e informazioni sono disponibili, inoltre, sono spesso difficili da trovare sul sito, soprattutto perché mancano strumenti di ricerca o voci specifiche nel menù del sito. Per quanto riguarda l’uso di immagini o altri contenuti multimediali, e dispone il 37% dei siti analizzati, mentre il 40% presenta dei casi di studio e il 41% contiene collegamenti a maggiori informazioni.
I risultati rispetto alle analisi degli anni precedenti non siano perfettamente confrontabili (alcune categorie di valutazione sono state rese più stringenti in quest’ultima edizione) ma, in linea generale, gli autori del report evidenziano i peggioramenti in alcune categorie (in primis la disponibilità di una dichiarazione sull’uso di animali, calata dal 54% del 2020 al 45% attuale) e il miglioramento di altre, in particolare per quanto riguarda i casi di studio (che nel 2020 erano presenti solo nel 16% dei siti, mentre nel 2024 sono saliti al 40%).
E l’Italia?
Degli oltre 900 siti analizzati, 52 erano italiani. E ciò che emerge dalla loro analisi non è positivo: in effetti, i siti web italiani sono tra quelli che si posizionano in modo peggiore per tutta l’analisi. Per esempio, appena il 13% delle istituzioni nazionali analizzate dispone di una dichiarazione sull’uso di animali; solo il 15% presenta contenuti multimediali, il 12% ha informazioni aggiuntive o una buona evidenza delle informazioni sulla sperimentazione animale all’interno dell’istituto.
Se dunque il report evidenzia nelle conclusioni che vi sia ancora molta strada da fare per diverse istituzioni a livello europeo, questo è ancora più valido per quelle del nostro paese: The picture in Italy is of particular concern, where there were poor results across all categories («Il quadro dell’Italia desta particolare preoccupazione, poiché ha ottenuto risultati scarsi in tutte le categorie»), scrivono chiaramente gli autori del report.
Il ruolo dei Transparency Agreements
Cosa può contribuire a migliorare la trasparenza sulla sperimentazione animale sui siti delle istituzioni pubbliche e private che la praticano? Una risposta potrebbe essere nei Transparency Agreements, un’iniziativa lanciata da EARA nel 2018 proprio per promuovere la trasparenza nella comunicazione riguardanti l’uso degli animali nella ricerca scientifica, un obiettivo in linea con quanto previsto dalle raccomandazioni della Commissione europea che accompagnano la Direttiva 2010/63/EU sulla tutela degli animali usati a fini scientifici. Le istituzioni firmatarie dell’accordo, che oggi sono più di 500 nella sola Europa, si impegnano a una comunicazione chiara sull’uso degli animali, a fornire informazioni al pubblico e ai media sul modo in cui sono condotte le sperimentazioni e i risultati raggiunti, a portare avanti iniziative che promuovano la conoscenza della sperimentazione animale e a fornire report annuali sui progressi compiuti.
Le 323 istituzioni che hanno aderito ai Transparency Agreements e che sono state comprese nell’analisi (in Belgio, Francia, Spagna, Portogallo e Paesi Bassi per l’UE) hanno infatti i risultati significativamente migliori nella valutazione: per esempio, il 78% presenta sul proprio sito dichiarazioni chiare sull’uso di animali e molti più contenuti in video e immagini (presenti quasi nella metà dei casi), ulteriori informazioni e casi di studio.
«I Transparency Agreements istituiti nell’UE stanno diventando il punto di riferimento per contenuti web che siano comprensibili per il pubblico generale e trasparenti sull’uso degli animali negli studi biomedici», ha commentato Kirk Leech, direttore esecutivo di EARA. Un risultato così incoraggiante è di supporto per l’impegno di EARA di ampliare la lista dei firmatari dei Transparency Agreement – tra i quali, al momento, non vi è alcuna istituzione italiana.
«Ciò che emerge dall’analisi di EARA sulla trasparenza sulla sperimentazione animale sui siti istituzionali italiani è sorprendente, ma a mio avviso solo fino a un certo punto. In Italia, purtroppo, molti enti sono ancora timorosi nei confronti di una comunicazione aperta e trasparente sulla sperimentazione animale. È un atteggiamento frutto anche dei molti attacchi subiti da parte di alcuni gruppi di attivisti, che negli anni passati hanno per esempio fatto incursioni negli stabulari con gravi danni alla ricerca o minacciato i singoli ricercatori», commenta Giuliano Grignaschi, portavoce di Research4Life. «È innegabile che quello della comunicazione sia, in Italia, un limite che dobbiamo assolutamente impegnarci a superare, soprattutto in considerazione della grande attenzione al benessere animale che caratterizza gran parte della società. La ricerca scientifica non può oggi fare a meno degli animali, ma certo non può esimersi da una comunicazione che metta tutti nelle condizioni di averne un quadro chiaro e completo su obiettivi, risultati, limiti, garanzie per gli animali stessi. Ma a fronte di questo impegno, che appunto è dovuto, ci dovrebbe essere a monte una garanzia di protezione dalle minacce che può causare».