Mentre l’FDA approva i primi trial clinici per gli xenotrapianti di rene, l’Italia si prepara a vietare definitivamente la ricerca in questo campo

A febbraio, la Food and Drugs Administration (FDA), l’ente regolatorio statunitense per i farmaci, ha approvato i primi due trial clinici per lo xenotrapianto di rene. È una notizia che non giunge inaspettata, ma che segna comunque un momento di fondamentale importanza per il mondo della medicina e ancor di più, se i trapianti andranno a buon fine, per i molti pazienti che ne hanno bisogno.

Xenotrapianti: dall’uso compassionevole ai trial clinici

Negli ultimi anni sono stati una mezza dozzina gli xenotrapianti d’organo, cioè trapianti da specie differenti dalla nostra: in alcuni casi sono stati eseguiti su pazienti dichiarati cerebralmente morti, ma abbiamo già assistito anche ai primi xenotrapianti in pazienti vivi. Gli organi sui quali si è principalmente lavorato sono cuore e rene (compreso anche lo “xenotimorene”, un rene sotto il quale è stato posto tessuto derivante dal timo per condizionare il sistema immunitario del ricevente per limitare il rischio di rigetto). Abbiamo riportato un quadro di queste prime sperimentazioni qui; si deve aggiungere lo xenotrapianto di rene eseguito a novembre 2024 presso la NYU Langone su una donna che, a oggi, risulta in buone condizioni fisiche ed è la paziente sopravvissuta più a lungo dopo questo tipo d’intervento.

Queste prime prove, pur preziosi per le conoscenze mediche, hanno rappresentato però tentativi isolati: sono stati approvati dall’FDA per singoli pazienti, valutando caso per caso, senza un protocollo sperimentale strutturato. È quello definito “uso compassionevole”, ossia un trattamento per persone a rischio di vita e per le quali non vi erano alternative terapeutiche possibili.

È per questo che i primi trial clinici rappresentano un momento così prezioso. Obiettivo di un trial clinico è infatti quello di raccogliere dati statistici per determinare se la terapia può essere approvata per un uso più ampio e standardizzato, seguendo criteri sperimentali definiti e controlli sistematici.

Vale la pena specificarlo da subito: questo non sarà un percorso veloce. I primi trial coinvolgeranno comunque un numero limitato di persone e richiederanno tempo per l’osservazione e la raccolta dei dati. Quelli approvati rappresentano inoltre solo un primo passaggio perché, come abbiamo spiegato qui, affinché un farmaco o una procedura terapeutica possano essere approvati per entrare nella pratica clinica, sono richiesti diversi step, ossia diverse fasi di trial nelle quali viene via via ampliato il campione.

Ma è con i trial clinici che la pratica medica può – se i risultati ne dimostreranno efficacia e sicurezza – cambiare davvero per tutti.

I nuovi trial

I primi trial clinici per lo xenotrapianto di rene sono stati approvati per due aziende, riporta l’American Kidney Fund. Queste aziende forniscono i reni di maiale modificati geneticamente (qui spieghiamo perché il maiale rappresenta la specie più idonea per gli xenotrapianti) per limitare il rischio di rigetto e della presenza di virus suini. La differenza tra le due aziende è che i maiali usati dalla United Therapeutics presentano 10 modifiche genetiche, mentre quelli delle eGenesis ben 69 e comprendono l’aggiunta di geni per migliorare la compatibilità con l’organismo umano (di cui uno per limitare la crescita degli organi).

Il trial che coinvolge l’azienda eGenesis è il più limitato: sarà condotto su tre pazienti ed è parte del protocollo di uso compassionevole dell’FDA, con un’attesa di sei mesi tra l’operazione del primo e del secondo paziente, e di tre per il terzo.

Invece, secondo il comunicato della United Therapeutics, il trial che la coinvolge inizierà intorno alla metà di marzo, inizialmente con sei pazienti e poi con 50. Per partecipare al trial, i pazienti devono aver ricevuto una diagnosi d’insufficienza renale, essersi dovuti sottoporre a dialisi almeno per i precedenti sei mesi ed essere di età compresa tra i 55 e i 70 anni. La scelta dei pazienti per il trial ricade inoltre su persone che, per ragioni mediche, non possono essere sottoposte al trapianto “tradizionale”, da donatori umani. A queste si uniscono persone che, pur essendo in lista d’attesa di un trapianto, hanno un elevato rischio di non riuscire a riceverlo o morire nell’arco di cinque anni.

In Italia, intanto

E nel nostro Paese? Sarebbe possibile iniziare a praticare anche in Italia gli xenotrapianti? Lo abbiamo scritto più volte, ma lo ricordiamo: questa pratica potrebbe rappresentare la soluzione per la cronica scarsità d’organi disponibili per le persone in attesa di un trapianto, una procedura che per queste persone rappresenta l’unica alternativa rimasta per il trattamento di condizioni che, altrimenti, portano alla morte. Le liste d’attesa, regolarmente aggiornate dal Sistema informativo trapianti, riportano al 27 febbraio oltre 8.000 pazienti in attesa e oltre 9.300 iscrizioni, perché alcune persone hanno bisogno di più di un organo.

Trovare persone disponibili a donare gli organi, uno stato di salute di questi ultimi che permetta il trapianto, e compatibili con la persona che li deve ricevere non è un’impresa semplice. A liste lunghe corrispondono lunghe attese, che a volte si concludono con una morte che il trapianto avrebbe forse potuto evitare. D’altro canto, l’ingegneria genetica, con le possibilità che offre in termini di manipolazione del DNA, potrebbe fornirci un giorno (vale la pena ribadire che la soluzione non è comunque dietro l’angolo) il modo per abbreviare questa attesa, e così offrire migliori probabilità di sopravvivenza ai pazienti, attraverso le procedure di xenotrapianto.

Eppure difficilmente l’Italia potrà unirsi a queste prime sperimentazioni. Vige infatti il divieto di usare gli animali per la sperimentazione sugli xenotrapianti: considerando che gli animali sono, per definizione stessa di xenotrapianto, imprescindibili in questa pratica, il divieto si applica in sostanza alla stessa ricerca sugli xenotrapianti. Il divieto, la cui applicazione è stata rimandata quasi di anno in anno fin dal 2014, entrerà in pieno vigore questo luglio: con quali implicazioni per la ricerca italiana e, soprattutto, per i pazienti?

Con l’applicazione del divieto, qualsiasi sviluppo nel settore degli xenotrapianti deve basarsi su dati ottenuti all’estero (quando non fossero gli stessi ricercatori e ricercatrici italiani a trasferirsi); se questa pratica dovesse rivelarsi una soluzione efficace per la carenza di organi disponibili per i trapianti, l’Italia potrebbe trovarsi in ritardo rispetto ad altri Paesi, costringendo i pazienti a cercare cure all’estero.
Abbiamo già commentato gli aspetti etici del divieto italiano, che peraltro comprende anche l’uso di animali per gli studi sulle sostanze d’abuso. Peggio che incoerenti, risultano discriminatori, permettendo ricerche e studi per ogni altra patologia e condizione medica ma non per xenotrapianti e disturbi da uso di sostanze: possiamo lavorare per trovare soluzioni soltanto per alcuni pazienti, mentre questi due gruppi sono lasciati indietro.

Così, mentre la ricerca sugli xenotrapianti avanza rapidamente oltre i nostri confini, l’Italia rischia di restare spettatrice di una rivoluzione medica che potrebbe trasformare migliaia di attese in concrete speranze di vita – una scelta politica le cui conseguenze si misureranno non in dibattiti teorici, ma in vite umane.

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